Durante l’ora di lezione si parla di Charlie Kirk. Emerge il potere condizionante dei social e il bisogno di una posizione umana. Il compito della scuola
“Charlie Kirk era un fascista, aveva paragonato l’Olocausto all’aborto”.
La sentenza, nella mia classe, è stata emessa: il tribunale è quello di alcuni ragazzi, ma la giuria era stata condizionata da migliaia di messaggi sui social.
Dopo quella dichiarazione, leggo una frase. “Io sento che il più grande distruttore della pace oggi è l’aborto, perché è una guerra diretta – un’uccisione diretta – un omicidio commesso dalla madre stessa. Tante persone sono molto, molto preoccupate per i bambini in India, per i bambini in Africa, dove tanti muoiono di malnutrizione, di fame e così via. Ma milioni muoiono deliberatamente per volontà della madre. Perché se una madre può uccidere il proprio bambino, cosa mi impedisce di uccidere te, e a te di uccidere me? Nulla”.
Dal fondo dell’aula qualcuno sobbalza e dice: “Ecco, questo è Kirk!”.
Richiamando l’attenzione e il silenzio, ho spiegato che quelle parole potevano sembrare sue, ma in realtà erano state pronunciate da santa Madre Teresa di Calcutta, durante il discorso che tenne ai grandi del mondo dopo aver ricevuto il Premio Nobel per la Pace nel 1979.
Tra le motivazioni si leggeva: “Un tratto distintivo del suo lavoro è stato il rispetto per ogni essere umano, per la sua dignità e il suo valore innato. I più soli, i più miserabili e i morenti hanno ricevuto dalle sue mani compassione senza condiscendenza, fondata sulla riverenza per l’uomo”.
Ho detto ai miei alunni che questo non corrisponde certo all’identikit di un moderno fascista. Eppure, ciò che hanno capito dai social è esattamente questo: se sei contro l’aborto, sei un fascista.
La prima obiezione che mi hanno rivolto è che Kirk avrebbe pronunciato anche molte frasi razziste e a favore delle armi. Ho spiegato loro che è sempre sbagliato giudicare le persone: la Chiesa condanna i peccati, ma mai i peccatori. Ogni persona ha un valore immenso, ciascuno è unico e irripetibile: il profugo che annega in mare, il bambino nel grembo della madre fin dal concepimento, il malato terminale fino all’ultimo istante della vita, il peccatore più incallito e persino il peggior assassino.
L’errore o il peccato si possono correggere, proprio perché la persona può sempre redimersi e cambiare, anche nell’ultimo istante della sua vita, in modo personale e senza che nessuno lo possa venire a sapere. Nessuno può giudicare o etichettare una persona.
“La Chiesa non permette niente, ma perdona tutto; il mondo permette tutto, ma non ti perdona niente”, diceva G.K. Chesterton. E anche questo episodio di Kirk ce lo ha dimostrato nuovamente.
Fascista, razzista, amante delle armi: etichette appiccicate addosso, che probabilmente hanno contribuito a condizionare anche il giovane assassino. Non so se a spingere il dito sul grilletto sia stata una parte politica, ma è certo che tutti dovremmo prendere coscienza di una cosa: le parole sui social e sui media hanno un peso enorme, possono essere come proiettili.
È troppo facile ridurre una persona a un’etichetta. Eppure, ogni giorno cerchiamo di insegnare ai ragazzi che le parole possono distruggere, come accade nel bullismo. Lo abbiamo visto anche di recente con la tragedia di Paolo, 14 anni, che si è tolto la vita il giorno prima di tornare a scuola. Lo chiamavano “Paoletta” o “Nino D’Angelo”. Gli inquirenti, per chiarire cosa lo abbia spinto a quel gesto estremo, hanno sequestrato i cellulari dei compagni indagati: vogliono capire se le parole tra i compagni abbiano avuto un peso nel suicidio del ragazzo.
Le parole hanno un peso, e troppo spesso sono state usate da attori, cantanti, scrittori, insegnanti e “intellettuali” per etichettare Kirk o chiunque la pensi in modo diverso.
Ma la realtà è più complessa di un’etichetta. Perché si può essere contrari all’aborto non perché fascisti, ma per difendere la vita di tutti, anche di chi non può parlare perché ancora nel grembo materno.
Perché si può essere in disaccordo con certe frasi di Kirk senza per questo appartenere alla sinistra o schierarsi con Saviano e con chi lo ha definito “il peggio del peggio”, razzista e fascista.
Etichettare l’avversario serve a banalizzarlo, a squalificarlo, a denigrarlo, persino a “ucciderlo”. Ma non serve a capire la realtà, che è più complessa dello scrolling di qualche secondo su un video di TikTok o Instagram.
La scuola dovrebbe aiutare a leggere e spiegare questa complessità. Ne abbiamo bisogno, perché troppi giovani stanno imparando da cattivi maestri che semplificano e banalizzano tutto per un proprio interesse economico o di potere, e da algoritmi che radicalizzano le posizioni e soffocano il dialogo tra le persone.
C’è bisogno di educazione, non di sentenze, lo ricordino i prof e gli intellettuali.
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