Una sentenza clamorosa e coraggiosa per alcuni, sconcertante per altri, quella che ha ribaltato in appello il giudizio di primo grado del processo sulla trattativa Stato-mafia. “Una sentenza annunciata” ci ha detto in questa intervista Frank Cimini, giornalista già al Manifesto, Mattino, Apcom, Tmnews e attualmente autore del blog giustiziami.it,“dal momento che i due più importanti presunti colpevoli, gli ex ministri Mannino e Mancino, erano già stati assolti.
D’altro canto, il giornale delle manette (Il Fatto Quotidiano, ndr) lo aveva già detto: la strada per arrivare alla colpevolezza è in salita”. Decenni di soldi pubblici spesi in un processo che sin dall’inizio non aveva alcuna prova, ci ha detto ancora, “una bufala mediatica che voleva ricostruire la storia, non preoccuparsi di eventuali colpe penali, anche perché prove non sono mai esistite”.
Come mai, secondo te, i giudici hanno ribaltato il giudizio di primo grado?
Il giornale delle manette aveva già detto che la strada era in salita per ottenere la colpevolezza degli imputati. C’era già stata la sentenza Mannino, con la sua assoluzione, nonostante un tentativo di ricorso in Cassazione per rimettere in discussione quanto stabilito dalla Procura generale. C’era stata l’assoluzione anche di Mancino, quindi non c’era possibilità di ottenere la colpevolezza, al massimo giudizi alternativi come il fatto non sussiste, non ha commesso il fatto, il fatto non costituisce reato.
Insomma, c’erano segnali evidenti che si sarebbe arrivati a questa sentenza, è così?
Si era capito in forza di queste assoluzioni che chi ha condotto questa indagine era consapevole dall’inizio di non avere la cosiddetta pistola fumante, di non avere prove. I magistrati si sono trasformati in storici tra virgolette, per puntare su una ricostruzione storica che sostituisse le prove che non avevano.
Molti sui social si lamentano che con questa sentenza lo Stato ci ha fregati ancora una volta, perché era colluso con la mafia ma i colpevoli sono stati assolti. A parte le prove mancanti, questo processo aveva delle fondamenta serie?
Il problema è che possiamo pensare tutto il male possibile dei Ros o di come vengono condotte certe indagini, ma ricordiamoci che la Procura dall’inizio, non esistendo il reato di “trattativa”, si era inventata quello di “reato di minaccia al corpo politico o amministrativo dello Stato”. Alla fine è stata confermata la condanna solo ai due mafiosi.
Quindi? Cosa vuol dire?
Vuol dire che Dell’Utri non ha mai commesso nulla, tanto meno questo pseudo reato, e per gli altri non c’è reato. Il fatto che fossero entrati in dialogo con Vito Ciancimino fu perché speravano che per suo tramite potessero arrestare dei latitanti.
Facevano il loro lavoro, insomma, intendi dire questo?
La trattativa con Ciancimino, che era una sorta di colloquio investigativo al pari di quelli che poliziotti e carabinieri fanno solitamente, era un modo per cercare persone che potessero collaborare con loro. Non c’era alcuna minaccia allo Stato e non c’è stato nessun do ut des, io ti do e tu mi dai. Cosa potevano dargli in cambio?
Quello su cui l’accusa si è soffermata è che lo Stato avesse trattato con la mafia perché non mettesse più bombe, visto che si era in un periodo di stragi. Che cosa avrebbe offerto lo Stato nessuno lo sa, ma su questo si è dibattuto in tribunale per anni e anni.
Sì, ma anche se fosse stato così, avrebbero trattato un po’ per evitare le stragi, un po’ per avere informazioni sui latitanti. In tutto questo io non vedo alcuna minaccia per lo Stato.
Allora perché imbastire questo processo?
È stato montato perché certi magistrati volevano cambiare la storia politica del paese puntando al ruolo di Berlusconi, ai soldi riciclati dalla mafia del padre. Una narrazione nella quale magari ci sarà anche del vero, ma come ammisero gli ispettori della Banca d’Italia, utilizzati come testimoni, non c’era alcuna prova che Berlusconi avesse cominciato la sua carriera di imprenditore riciclando i soldi della mafia. Anche perché tanti documenti delle banche non erano più disponibili.
Insomma, un processo che doveva trovare dei colpevoli immaginari, si può dire così?
Una narrazione che magari poteva anche essere vera, come il famoso “papello” (un documento contenente le richieste di Riina alle istituzioni, ndr) che non è mai stato trovato. Quando fai un processo in tribunale, ci vogliono le pezze d’appoggio, le prove. Qui di questa narrazione non è stato provato niente al di là di quello che si può dire al bar. C’è una parte dell’opinione pubblica molto orientata, convinta da un battage mediatico durato trent’anni. Qualcosa di analogo al cosiddetto mistero del caso Moro, su cui si sono costruite carriere e scritto libri che hanno venduto milioni di copie, ma tutto basato sul niente, perché ci sono stati sei dibattimenti che dicono che dietro le Brigate Rosse non c’era nessuno. Siamo un paese dove la mamma dei dietrologi è come la mamma dei cretini, è sempre incinta.
Cosa resta di decenni di processo?
La sentenza di primo grado è stata il frutto di tutto questo battage pubblicitario operato dal grande investigatore Ingroia, che si proclamava erede di Falcone e Borsellino, poi abbiamo visto la fine che ha fatto. Possiamo sperare che questa sentenza segni una discontinuità con il passato, che si cominci a ragionare più correttamente. Le ricostruzioni storiche non possono influenzare la responsabilità penale.
Una sentenza che conferma l’esigenza della riforma della giustizia?
La riforma della giustizia, ce lo continuiamo a ripetere, non si riesce a fare perché la politica è sotto ricatto, non riesce a farla.
Una magistratura malata?
Purtroppo di qualsiasi argomento si parla, si arriva sempre lì, la magistratura ha ancora un potere immenso e lo utilizza. C’è anche l’elemento mediatico: oltre a separare le carriere di pm e giudici bisogna separare anche quelle di pm e giornalisti.
Si può dire che ha vinto la giustizia e non il giustizialismo?
Diciamo che è stata smascherata una grande bufala, una bufala mediatica che è andata avanti per anni con il concorso di giornali, tv e magistrati. Sarebbe già dovuto emergere in primo grado, ma evidentemente quei giudici non se la sono sentita.
(Paolo Vites)
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