Trent'anni fa veniva presentato in anteprima a New York "Seven", film di David Fincher di indimenticabile impatto

Usciva in anteprima a New York giusto trent’anni fa un film di indimenticabile impatto visivo ed emotivo, specialmente per chi ricorda di averlo visto sul grande schermo della sala cinematografica. Parliamo infatti oggi di Seven (Se7en) di David Fincher, thriller dai tratti stilistici che sconfinano nel noir, di cui riprende nella messa in scena diversi stereotipi, ma che dai generi suddetti si distacca per il contenuto narrativo sorprendentemente originale.



Si tratta infatti della breve vicenda di un serial killer psicopatico ma scaltro e lucidissimo nei suoi sinistri intenti, che nell’arco di pochi giorni commette efferatissimi ed elaborati delitti, atti a punire persone colpevoli – secondo il suo giudizio – dei sette peccati capitali. Un solo emblematico orribile delitto per ogni peccato, perpetrato secondo la logica del contrappasso.



Si comincia con la gola (un obeso costretto a mangiare fino a scoppiare), poi l’avarizia (un avvocato di grido mutilato e lasciato morire nel suo studio), poi la lussuria (una prostituta copulata a morte con un fallo di metallo tagliente), poi l’accidia (un barbone tenuto legato a un letto per un anno, morto di stenti).

Compiuto il quinto delitto, quello della superbia (una bella donna vanitosa, sfigurata per indurla al suicidio), il killer (un ispirato Kevin Spacey) sorprendentemente si costituisce, consegnandosi ai due detective che lo braccano fin dall’inizio. Ma ancora mancano all’appello i peccati di invidia e ira: come si concluderà la macabra sequenza?



“Ernest Hemingway una volta ha scritto: il mondo è un bel posto e vale la pena di lottare per esso. Condivido la seconda parte” dice il detective anziano (Morgan Freeman) quando tutto si è tragicamente concluso, mentre il detective giovane (Brad Pitt) viene trasportato in cellulare verso la non vita che il killer gli ha riservato.

Fincher molto abilmente, come detto, si gioca gran parte del film su alcuni elementi tipici del cinema noir, come l’ambientazione nella grande metropoli (anonima) costantemente sferzata dalla pioggia e percorsa da cupi presagi di morte (come non successe nemmeno in Blade Runner), oppure il personaggio del detective a fine carriera che prima di lasciare si trova davanti il caso più difficile (gentile lascito di Raymond Chandler).

Il risultato è altamente godibile, se così si può dire di un film dal suddetto contenuto: il meccanismo del thrill (dall’inglese: emozionare, eccitare) funziona alla perfezione. Le aspettative dello spettatore crescono all’incedere dell’elaborata vicenda criminosa, fino al finale, allucinato e in buona parte sorprendente. Anche gli spettatori non propriamente entusiasti del genere non riescono a staccarsi dalla storia, non possono smettere di chiedersi “ma come andrà a finire?”. Lo rammenteremo poi.

Intanto va rilevato che agli autori di Seven, spesso tacciati di eccessivo gusto per il macabro, si debbono invece riconoscere due grossi meriti. In primis quello di aver evitato gli stereotipi portati dalla presenza di una coppia di poliziotti nero-bianco, approfondendo i caratteri psicologici di tali personaggi e collegandoli alle tematiche presenti nel film: l’ineluttabilità del male nel mondo e l’indifferenza generale di fronte alla scomparsa dei valori tradizionali.

Inoltre, pur narrando di uccisioni sanguinosissime, il suo taglio quasi espressionista fa in modo che non siano presenti vere e proprie scene di violenza, poiché dei vari delitti risultano visibili soltanto le conseguenze: i due detective arrivano sulla scena solo quando tutto è già compiuto, circostanza leggibile anche come una sottile metafora del destino cui l’umanità corrotta dal peccato va incontro.

La sequenza finale, oltre a concludere in modo mirabile il meccanismo narrativo di tutta la vicenda, conferisce a Seven un significato complessivo che si eleva dal nichilismo macabro di cui pare essere pervaso. Il killer conduce i due detective in un luogo deserto. Durante il tragitto spiega le ragioni pseudo religiose che l’hanno spinto ai delitti, da lui vissuti come atti di purificazione. Giunti sul posto, confessa di aver ucciso la moglie del giovane per invidia della sua ordinaria vita borghese (mentre un corriere consegna la testa della donna dentro una scatola di cartone); allora il giovane detective, acciecato dall’ira, lo uccide sparandogli in testa, eludendo l’estremo tentativo dell’altro detective di farlo ragionare.

Conclusione che costringe lo spettatore a schierarsi con forte senso morale: che cosa è “giusto” fare in una simile circostanza, cedere alla naturale ira che rode l’animo e ammazzare il killer – dandogli così soddisfazione e commettendo a propria volta un delitto -, oppure resistere stoicamente ad essa e consegnarlo alla giustizia, rimanendo però fortemente frustrati negli istinti e devastati da un dolore non più vendicabile?

Il merito del film è anche quello di non dare risposte, ma soltanto di mostrare l’umanità che comunque esiste anche nelle vicende più tragiche e deliranti.

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