La riforma della giustizia avanza in Parlamento, mentre la sinistra, dopo il fallimento sul Jobs Act, rivela un approccio conservatore.

Il primo approdo parlamentare della riforma della giustizia ha seguito di poche settimane il tentativo, invece fallito, di azzerare definitivamente il Jobs Act via referendum. Questa prospettiva può forse aiutare a cogliere una parte del quid politico della vicenda, forse al di là degli aspetti sostanziali in gioco, pur molto rilevanti.



La sinistra italiana si ritrova sconfitta e frustrata per non aver fermato una riforma proposta dalla maggioranza di destra-centro, non per aver mancato un proprio progetto di cambiamento nel sistema-Paese. E questo avviene dopo che la stessa minoranza si è impegnata senza successo a cancellare, non a promuovere o aggiornare, l’unica riforma di cui il Pd poteva vantare legittimamente la paternità nell’ultimo quinquennio pieno a Palazzo Chigi (quella stagione certificò anche l’incapacità della sinistra, che presidiava anche il Quirinale, di condurre in porto una riforma istituzionale organica, coerente con le attese del Paese reale).



Il no pregiudiziale ad affrontare il dossier giustizia e addirittura il pentimento (ideologico nelle radici e autolesionista negli effetti politici) sulla riforma del lavoro paiono quindi confermare un sentiment al fondo immobilista, divenuto quindi in massima misura conservatore, in uno schieramento politico che non per caso da anni si è chiuso nell’estrema trincea della difesa acritica della “Costituzione più bella del mondo”. Una Carta che non andrebbe mai più riformata e che invece proprio la riforma Nordio dichiara concretamente riformabile in attesa della più strutturale riforma premierato.



Nella Prima Repubblica le grandi riforme italiane (a cominciare da quella che nel 1946 abolì la monarchia) sono state invece spinte classicamente dalle forze progressiste e frenate da quelle moderate/conservatrici (emblematici lo Statuto dei lavoratori e poco dopo l’apertura al divorzio). Nel nuovo secolo le parti appaiono ormai invertite. E forse val la pena rammentare che la Seconda Repubblica, oltreché con le inchieste di Mani Pulite, è nata con il referendum Segni, concepito nel centrodestra dell’arco parlamentare. Un passo che ha funzionato da efficace valvola politica per reali pressioni socio-economiche al cambiamento dei modi di governo del Paese.

È vero che all’epoca le tensioni accumulate nel sistema-Paese furono risolte principalmente dalla magistratura. Ma quest’ultima, nell’arco di un trentennio, ha visto poi progressivamente cristallizzarsi in senso corporativo il potere acquisito spazzando per anni le forze politiche, detentrici della sovranità legislativa e del potere esecutivo. Anche i settemila magistrati italiani hanno perso più di un’occasione per modificare in modo proattivo la costituzione materiale del Paese. L’ultima è coincisa con l’esplodere del “caso Palamara”, ormai sei anni fa. Forse non è del tutto corretto, ed è in parte ingeneroso verso la tacita suasion del presidente Sergio Mattarella al vertice del Csm, affermare che nulla è cambiato in un ordine giudiziario che pareva sempre più avvitato su se stesso.

Però la riforma Nordio poteva prendere forma attraverso un percorso meno conflittuale e quindi anche più ambizioso nei traguardi. Ma la stagione riformista aperta dalla maggioranza Meloni (cui il Financial Times rimproverava assenza di grandi risultati alla scadenza dei mille giorni) sembra ora chiamare al cambiamento tutte le componenti del sistema-Paese, forse più di quanto sia avvenuto negli ultimi tre anni.