Negli ultimi giorni si è tornati a parlare di spread, questa volta tra Italia e Francia. Ma i segnali non sono incoraggianti

Il crollo dello spread tra rendimento del decennale italiano e francese, ai minimi degli ultimi 30 anni, ha fatto tornare di moda termini che hanno riempito i giornali durante la crisi europea dei debiti sovrani. Quella crisi, esplosa alla fine del 2011, proseguita e peggiorata durante il Governo Monti, aveva visto l’inizio della fine con il “whatever it takes” di Draghi del 2012. Il prezzo era stato la svalutazione dell’euro, la soppressione della domanda interna e un’Europa mai come prima dipendente dalle esportazioni.



Oggi il protagonista è lo spread tra Italia e Francia, arrivato ai minimi degli ultimi 25 anni nonostante il debito su Pil di Parigi sia migliore di quello di Roma. La Francia non riesce a trovare un consenso politico abbastanza forte per poter avviare un percorso di risanamento fiscale. L’8 settembre, a meno di sorprese, il Governo Bayrou perderà la fiducia aprendo la strada alle seconde elezioni in meno di due anni.



Il Governo Monti, ricordiamo, aveva potuto varare un piano di austerity non solo senza agitazioni, ma senza quasi scioperi; l’Italia ha poi sorpreso, negli anni successivi, per la capacità di raccogliere tasse. Il caso francese è diverso; anche se si trovasse una maggioranza disposta a votare i tagli bisognerebbe passare per la reazione delle piazze.

In realtà, negli ultimi mesi non è sceso solo lo spread tra Italia e Francia, ma è sceso anche quello con la Germania. Berlino si appresta a varare un piano di rilancio dell’industria militare e di incentivi all’industria, falcidiata dalle evoluzioni geopolitiche e dalle sanzioni al gas russo, che avrà impatti significativi su deficit e debito. In Europa, si discute poi di piani di investimento e debito comune. Nel caso tedesco la riduzione dello spread non riflette le cattive finanze di Berlino o l’incapacità di avere un bilancio pubblico ordinato, ma un piano di riarmo che si misura con l’ordine di grandezza delle centinaia di miliardi di euro.



Tutto questo è stato vero fino a due settimane fa, poi qualcosa sembra essere cambiato. Lo spread tra Italia e Germania, sceso ai minimi dal 2010, ha cominciato a risalire e negli ultimi giorni anche quello con la Francia ha smesso di scendere. Questo è avvenuto man mano che diventava concreta l’ipotesi di una crisi politica a Parigi che oggi sembra non avere né una conclusione certa, né un epilogo positivo anche nel medio termine.

Il premier francese François Bayrou (Ansa)

Una crisi politica e finanziaria a Parigi oggi avverrebbe in un contesto molto diverso rispetto a quello del 2012. L’Europa non può più risolvere i suoi problemi con una svalutazione dell’euro e le esportazioni, non importa più gas russo con cui produrre energia a prezzi e contenuti e deve varare un piano di riarmo che, nel complesso, vale migliaia di miliardi di euro.

Non siamo più nemmeno in uno scenario di globalizzazione, che ha schiacciato i prezzi nonostante le bolle finanziarie per tre decenni. È tutto l’opposto, perché la fine della globalizzazione e i conflitti sono inflattivi. I mercati sono preoccupati per l’andamento dei prezzi e gli investitori non sono più così sicuri delle obbligazioni governative. Ciò che sta facendo Trump sulla Fed è da un lato una minaccia per i mercati e dall’altro dà la misura di quale sia l’urgenza del Governo americano di avere una Banca centrale completamente collaborativa.

Quello che è andato in scena in questi ultimi giorni, con il rialzo dello spread, non è un cambio di opinione degli investitori sul Governo italiano. Il mercato, dopo più di dieci anni, riprende confidenza con problemi a cui non era più abituato. Una crisi politica e finanziaria a Parigi non è un problema per la Francia, ma per l’Europa e l’euro e per la loro tenuta. La priorità dei Governi, Germania in primis, è il riarmo, la difesa dell’industria e la difesa dei propri cittadini da un contesto economico “sfidante” soprattutto per quanto riguarda i prezzi.

Se la crisi finanziaria prendesse piede e si avviasse un circolo vizioso tra politica e mercati i Paesi europei messi meglio, finanziariamente o energeticamente, farebbero dei conti che non sono stati fatti nel 2012 con urgenze nuove. Ciò apre possibilità che da allora si pensavano chiuse.

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