Ci sono dei segnali di una crisi che va oltre quella del settore automotive: basta anche guardare all'andamento dell'oro e del Bitcoin
La tensione politica interna negli Usa è alta. Il recente scontro tra il Presidente Trump ed Elon Musk ha messo in mostra i limiti di un’alleanza che fin dall’inizio aveva suscitato diverse perplessità. Ora i nodi sono venuti al pettine: Trump, come promesso in campagna elettorale, col provvedimento denominato “Big Beautiful Bill”, ha tolto una serie di fondi a sostegno delle politiche green messe in campo dalla precedente Amministrazione Biden, di fatto togliendo i sussidi per le auto elettriche.
Alle proteste di Musk, Trump ha risposto con durezza che “senza i sussidi Elon dovrebbe chiudere bottega e tornare a casa in Sudafrica”. Intanto il titolo di Tesla in borsa perdeva il 7%. Musk aveva commentato il disegno di legge affermando che causerà un aumento della spesa pubblica e del debito e che dalla sua approvazione sarebbe nato un nuovo partito: il partito dei porci che si abbuffano.
Mettendo da parte gli elementi folkloristici di questo scontro, che per certi aspetti assomiglia a quello di una soap opera di bassa qualità, la sostanza mostra come l’ideologia green trovi grosse difficoltà nella sua applicazione pratica. Non solo perché le persone sono sempre più informate e capiscono che avere un’auto che in apparenza non inquina è solo un’illusione ottica, perché il problema del consumo di fonti energetiche non rinnovabili è stato semplicemente spostato, dal motore dell’auto alla centrale che produce l’energia elettrica con cui si ricarica l’auto: se quella centrale consuma gpl, petrolio o carbone, direi che l’obiettivo green è semplicemente fallito.
Ma tutta l’ideologia è fallita, per non aver tenuto conto della realtà concreta, quella per la quale enormi riserve di materiali necessari per la costruzione di un’auto elettrica sono tutte in Cina e quindi il settore dipende fortemente da materie prime cinesi.
Per rimanere al solo settore dell’auto, in Europa sono ormai in vendita diversi modelli di auto elettriche cinesi, che per il loro prezzo fanno concorrenza ai modelli elettrici delle altre case europee nonostante a quelle cinesi siano applicati dazi che variano dal 27% al 45%. Ma se non vi fossero tali dazi, se vi fosse la banale legge del “libero mercato”, le case automobilistiche europee sarebbero spacciate.
Come ben sanno i miei fedeli lettori, io non sono affatto favorevole al cosiddetto “libero mercato” (che spesso non è per niente “libero”, ma di fatto in mano ai più forti di turno); quindi sottolineo questo punto solo per mostrare la fragilità di quella ideologia ambientalista che, spesso a braccetto con certi poteri finanziari e politici, vorrebbe imporre certe restrizioni che in fin dei conti portano soldi ai soliti ricchi.
La realtà è molto semplice: il settore dell’auto, soprattutto nei Paesi industrializzati moderni, è vicino alla saturazione e quindi la produzione potrà servire solo a sostituire le auto troppo vecchie. Ma questo dovrà comportare una drastica riduzione della produzione odierna. A meno che non si costringano gli attuali proprietari a cambiare le proprie auto, inserendo normative che sfidano la logica e il buon senso, come quelle che vorrebbero impedire la circolazione delle auto più vecchie.
Sono normative contro il buon senso perché non tengono conto di una cosa molto semplice: i conti si fanno con l’oste e in questo caso l’oste è il consumatore, che in questi tempi di crisi, negli ultimi vent’anni, ha visto ridursi drasticamente la propria capacità di spesa, soprattutto nelle fasce più povere della popolazione. Se sempre più famiglie fanno fatica ad arrivare a fine mese, come faranno a comprarsi un’auto nuova?
La “soluzione” trovata è quella del pagamento rateale; ma è una falsa soluzione. La situazione è questa: oggi le auto vengono vendute a prezzo di costo, per quanto sia alto; i profitti derivano in realtà dagli interessi sulle rate. Perfino nel settore delle auto usate la situazione è la stessa: se si vuol pagare in contanti, il prezzo è superiore di almeno un migliaio di euro al pagamento rateale, ma per finanziare quell’importo inferiore, negli anni si viene a pagare in totale un prezzo maggiorato di almeno il 40%.
Tutto questo non riguarda solo il settore auto. La crisi è generalizzata ed è la stessa crisi del 2008 dalla quale non siamo ancora usciti: una crisi di mancanza di liquidità nell’economia reale mentre nel mondo della finanza la liquidità è sovrabbondante.
La gravità della situazione attuale è ben testimoniata da due fatti. Il primo è il tasso di interesse dei titoli di stato a lungo termine, che si mantiene alto nonostante il Pil di tutti i maggiori Paesi sia stagnante o in calo, se non addirittura negativo. Questa è una novità assoluta, poiché da sempre tale tasso segue l’andamento dell’economia: quando va bene, quando il Pil è in crescita, i tassi sono alti; quando c’è crisi, i tassi calano, poiché le banche centrali tendono a non aggravare la crisi economica abbassando i tassi sulla propria moneta e questo influisce direttamente sui tassi dei titoli di stato.
Ora invece, nonostante la crisi economica, i grandi fondi di investimento non fanno incetta dei titoli di stato, poiché percepiscono la debolezza strutturale di tutto il sistema finanziario e quindi si rivolgono a quelli che vengono considerati asset “sicuri”, che in qualche modo proteggano il capitale da un’inflazione troppo alta. Per continuare ad attrarre denaro, gli Stati sono in qualche modo costretti a offrire interessi maggiori sui propri titoli e questo non è un bel segnale per il futuro dell’economia reale.
E qui si svela il secondo elemento rilevante. Gli asset considerati sicuri sono soprattutto due: l’oro e il Bitcoin. Da decenni tutte le banche centrali, ma quella russa e quella cinese più di altre, stanno facendo incetta di oro. E se lo fanno loro, vuol dire che la previsione di un terremoto finanziario non è campata per aria. La crescita del prezzo dell’oro a nuovi record assoluti è solo la controprova palese di un andamento pluriennale dovuto a una crisi che sembra non finire mai. Lo stesso discorso vale per il Bitcoin, che nei giorni scorsi ha infranto ogni record arrivando alla cifra folle di 122mila dollari.
Questi sono i dati oggettivi che mostrano quanta poca fiducia gli esperti della finanza abbiano nella finanza stessa.
Il grande spauracchio per chi gestisce grandi somme di denaro è quello di una inflazione fuori controllo. Per decenni ci hanno raccontato la favoletta dell’inflazione sotto controllo grazie alle banche centrali, anche contro l’evidenza di una Bce che per anni cercava di alzare un’inflazione a suo dire troppo bassa, ma senza risultati concreti. Ora che l’inflazione da qualche anno inizia a mordere, allora la Bce si è mossa (alzando i tassi) per contrastarla. Ma gli effetti sono davanti agli occhi di tutti: l’inflazione è ancora troppo alta (sopra il 2%, obiettivo dichiarato della Bce) in un contesto di crisi economica perdurante.
Crisi economica perdurante, inflazione che non scende e oro e Bitcoin alle stelle: c’è bisogno di altro per dichiarare il completo fallimento delle politiche monetarie europee?
Negli Usa Trump si lamenta che la Fed non abbassa i tassi, per favorire l’economia e alleggerire il peso degli interessi del debito. Da noi in Europa invece tutto tace. E l’economia reale continua a soffrire.
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