Il rapporto tra Stato e mercato è uno dei principali temi che hanno interessato prima la teoria e poi la prassi dei protagonisti dell’economia. Quello che viene giustamente considerato il fondatore del liberalismo, Adam Smith, nella sua opera principale (“La ricchezza delle nazioni”) sottolinea come il perseguimento individuale dei propri obiettivi sia il fattore principale del benessere collettivo. C’è infatti, secondo Smith, una mano invisibile che fa in modo che l’interesse, anzi quasi l’egoismo, dei singoli si trasformi nella possibilità di soddisfare i bisogni della società secondo la famosa massima: “Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno a cura del proprio interesse. Non ci rivolgiamo alla loro umanità, ma al loro egoismo”.
Quella di Smith è stata, e rimane, una delle più grandi rivoluzioni del pensiero economico- sociale. Prima di lui la convinzione comune era quella teorizzata da Thomas Hobbes secondo cui “homo homini lupus”: gli uomini sono avidi, egoisti, insensibili al bene comune, portati al conflitto uno contro tutti. Per evitare il caos, secondo Hobbes, era quindi necessaria un’entità superiore capace di avere un potere coercitivo sulle persone. Lo Stato quindi, come istituzione non solo utile, ma indispensabile.
Dopo due secoli e mezzo di questo confronto filosofico di acqua ne è passata sotto i ponti con un confronto sempre più aperto tra liberisti e statalisti, un confronto condizionato a metà Ottocento dall’irruzione delle teorie marxiste che, raccogliendo gli effetti negativi della rivoluzione industriale, teorizzarono la necessità di abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione con una completa identità tra Stato e sistema economico.
Un’altra pietra miliare nel dibattito sugli equilibri tra Stato e mercato è poi arrivata con John Maynard Keynes con lo sdoganamento della spesa pubblica, anche in deficit, se necessario per rilanciare l’economia. Ma tutti questi elementi appaiono pura filosofia (con tutto il rispetto per i veri filosofi) per una realtà come quella italiana in cui lo Stato, in tutte le sue articolazioni, appare pletorico, inefficiente e costoso. Uno Stato che intralcia lo sviluppo economico con un numero spropositato di leggi, ordinanze e regolamenti; che non lascia tranquillo chi paga le tasse e stende tappeti rossi agli evasori; che mette a carico le proprie spese sulle generazioni future con un debito pubblico record, che semina bonus e incentivi distorcendo la concorrenza e il merito.
Lo Stato dovrebbe dettare poche e chiare regole, dovrebbe intervenire per bloccare posizioni di rendita e di monopolio, dovrebbe rispettare la sussidiarietà, e poi lasciare che il mercato sviluppi le proprie potenzialità. È questa la tesi di fondo dell’ultimo libro di Claudio De Vincenti (“Per un Governo che ami il mercato” – Ed. Il Mulino . pagg. 224 – € 20) in cui l’autore, docente di Economia politica e con incarichi ministeriali nei Governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, affronta con una prospettiva storica, ma con evidenti legami all’attualità, le politiche che hanno caratterizzato il cammino dell’Italia nel dopoguerra. Con tutti i difetti che si sono presentati per scelte di volta in volta effettuate più per ottenere consensi a breve termine che a rendere più solide a medio e lungo termine le prospettive di sviluppo.
La grande responsabilità dello Stato è anche quella di prevenire quelli che vengono chiamati, con grande approssimazione, i “fallimenti del mercato” e che invece spesso sono causati proprio dalla mancanza di prospettiva e di rigore negli interventi pubblici. Aiutare il mercato a funzionare meglio: un paradigma che fatica a essere colto nelle stanze della politica.
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