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Home » Cultura » Storia » STORIA/ El Alamein, novembre 1942: per chi non muore inizia un’altra guerra

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STORIA/ El Alamein, novembre 1942: per chi non muore inizia un’altra guerra

Alberto Leoni
Pubblicato 14 Novembre 2022
Soldati italiani a El Alamein (foto dal web)

Soldati italiani a El Alamein (foto dal web)

Nella prima settimana di novembre 1942 l'offensiva finale britannica mette fine alla resistenza (ma non al valore) delle forze dell'Asse (3)

A sud, invece, niente di nuovo, perché gli inglesi continuano a non riuscire a passare mentre la “Folgore” si sta ormai dissolvendo. Nei giorni precedenti sono caduti moltissimi ufficiali, fra cui Marescotti Ruspoli, rimasto in linea nonostante la febbre altissima: è morto Vagliasindi del Castello di Randaccio (che prima di spirare vuole vedere il tricolore un’ultima volta per morire con l’ultima visione della patria davanti agli occhi), morto anche Gianni Bergonzi. Il 27 sera cade anche il capitano Gastone Simoni, mentre guida un contrattacco con i pochi uomini rimasti. Di lui scriverà Bechi:  “aveva venticinque anni, la sensibilità delicata di un fanciullo e l’entusiasmo schietto di chi non è guasto dalla vita. Era un puro”.


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Poi, quella sera, anche Costantino Ruspoli raggiunge il fratello e i suoi compagni in una pace che il male degli uomini non poteva più turbare. Restando calmissimo durante il tiro dell’artiglieria, Ruspoli attese che questo si spostasse verso l’interno poi chiese al tenente che lo assisteva: ”Che ore sono, cucciolo?”. “Le 22.00 signor capitano”. “Bene, dovremmo esserci ormai”. Al che indossa l’elmetto e va alle posizioni. Costantino è tra gli ultimi a cadere, mentre spara in piedi, colpito al petto da una raffica di mitragliatrice.


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Qualche giorno dopo il paracadutista Leandro Franchi, al culmine di una settimana di combattimenti, viene ferito e fatto prigioniero. Nonostante sia menomato fisicamente, attacca a mani nude le sentinelle, le elimina e libera i propri compagni, poi inizia a camminare verso le proprie linee portando un ufficiale sulle spalle e conducendone per mano un altro, rimasto cieco. Nuovamente catturato tenta a ancora di fuggire e viene gravemente ferito ma si impossessa di una rivoltella e combatte corpo a corpo con gli inglesi, riuscendo nuovamente a fuggire. Paralizzato al braccio e alla gamba destri, rimarrà quasi cieco per le ferite ricevute.


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Nei giorni successivi gli australiani continuano a rosicchiare posizioni e gli inglesi respingono i contrattacchi di Rommel. Le divisioni italo-tedesche si riducono di giorno in giorno e la battaglia di logoramento imposta da Montgomery sta raggiungendo i risultati prefissati. Il 7° bersaglieri, schierato lungo la costa, riconquista quota 28 e la difende fino all’estremo, facendosi annientare sul posto.

Il 1° novembre inizia l’operazione Supercharge, l’offensiva finale britannica in cui Montgomery impegna tutte le riserve disponibili. Rommel risponde scagliando contro gli inglesi le proprie riserve e la battaglia fra carri diviene generalizzata. Per la “Trieste” il momento della verità giunge la sera del 31 ottobre. La IX brigata corazzata britannica subisce durissime perdite ma il 65° reggimento di fanteria viene distrutto. I combattimenti sono senza tregua e interviene anche l’XI battaglione carri M13 della “Trieste”, comandato dal maggiore Gabriele Verri. I carri italiani per eseguire un tiro davvero efficace devono impegnare combattimento a distanza ravvicinata e i piloti, per abitudine, schiacciano l’acceleratore oppure fanno in modo di tenere bloccato il pedale affinché la morte del pilota non impedisca il movimento. Così i carri vengono colpiti ed esplodono o vanno in fiamme e quei roghi semoventi continuano ugualmente la loro corsa contro il nemico. Il capitano Vittorio Bulgarelli muore nel rogo del suo carro e anche il maggiore Verri ha le gambe stroncate da un proiettile ma viene salvato e trascinato fuori dal carro. Un carrista, rimasto anonimo, esce con gli abiti in fiamme dal suo mezzo, si rotola nella sabbia e spegne il fuoco ma ormai è morente. Prima però si avvicina a Verri e mormora: “Signor maggiore, non permettete mai che si dimentichino di noi”. Si sono dissolti anche gli ultimi reparti della “Trento”, immolati sul posto.

La sera del 4 novembre Rommel, disubbidendo agli ordini di Hitler, dispone la ritirata di ciò che resta della sua armata. L’ultima riserva rimasta è la divisione “Ariete” che si sacrifica fino all’ultimo carro, fino all’ultimo uomo per coprire la ritirata. L’ultimo messaggio a Rommel da parte dello stato maggiore della divisione è del pomeriggio del 3 novembre: ”Carri armati nemici fatta irruzione da sud. Con ciò ‘Ariete’ accerchiata. Carri ‘Ariete’ combattono”.

Nel dopoguerra si discuterà sul cinismo tedesco che sacrificò le nostre divisioni di fanteria per permettere la ritirata del nucleo dell’Afrika Korps ed effettivamente le nostre divisioni rimasero tagliate fuori, abbandonate nel deserto. E tuttavia non si può non ammettere che i reparti tedeschi, se non altro per l’armamento e l’organizzazione, erano quelli cui doveva essere data la priorità nell’uso dei mezzi di trasporto e del carburante.

La “Trento” viene distrutta mentre la “Trieste” riesce a ripiegare, con un solo reggimento di fanteria e il reparto comando. Il 12° reggimento bersaglieri cessa di esistere e così il 9°, mentre il 7° e l’8° avrebbero continuato a combattere in Tunisia. La divisione “Brescia”, che si era battuta a Deir el Munassib, non riuscì a ritirarsi e il 7 novembre veniva annientata nell’oasi di Fuka insieme alla “Pavia”, mentre la “Bologna” riuscì a raggiungere Marsa Matruh prima di arrendersi.

Il 6 novembre anche i superstiti della “Folgore”, che si ritiravano a piedi nel deserto, furono raggiunti e circondati: in tutto 250 uomini ancora in grado di combattere, privi di munizioni, su 5mila partiti da Tarquinia. Di tanti reparti il 31° battaglione guastatori riuscirà a sottrarsi alla cattura, sfuggendo all’inseguimento delle autoblindo inglesi. 20mila prigionieri italiani e 10mila tedeschi vengono radunati e iniziano a dirigersi verso i campi di prigionia. La battaglia è finita e il colpo decisivo alle sorti della guerra in Africa viene dato poche ore dopo, l’8 novembre, quando un’armata anglo-americana sbarca in Marocco e in pochi giorni dilaga in Algeria puntando verso Tunisi. Le sorti della guerra nel Mediterraneo erano segnate.

Un’ultima notazione. Per i pochi militari italiani scampati a quest’apocalisse la guerra non finì, ma continuò negli anni successivi in un modo che essi non potevano prevedere. Paolo Caccia Dominioni sarebbe stato partigiano, decorato con medaglia di bronzo. Il capitano di artiglieria Franco Balbis, medaglia d’oro della Resistenza, sarebbe stato fucilato al Martinetto nel marzo 1944, mentre Bechi di Luserna, altra medaglia d’oro della Resistenza, si sarebbe fatto ammazzare dai propri paracadutisti ammutinati che volevano continuare a combattere coi tedeschi. Questi come decine e decine di migliaia di militari, dopo aver combattuto contro gli Alleati, avrebbero continuato a combattere contro tedeschi e fascisti, ma sempre servendo la patria. È un paradosso, questo, che ancora oggi non riusciamo a comprendere: ma questo è. Si può dire che è un problema nostro, e non loro.

(3 – fine)

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