Beatrice Cane, moglie del condottiero Facino Cane, svolse un ruolo di primo piano nella transizione tra i Visconti e gli Sforza nella Milano del XIV secolo
Il 16 maggio 1412 si spegneva a Pavia uno dei maggiori condottieri del XIV secolo: Facino Cane. Nato a Casale Monferrato nel 1360 (Bonifacio il nome) era uno dei figli di Emanuele Cane, connestabile di cavalleria e podestà al servizio dei Visconti, signori di Milano, fin dagli anni Settanta del Trecento.
Facino, a soli 26 anni, diviene capitano al soldo della famiglia veronese dei Della Scala. Nel 1387 passa al servizio del marchese Teodoro II del Monferrato, per il quale conquista alcuni territori piemontesi, devastandoli e saccheggiandoli, secondo un uso che vedeva nella predazione un ulteriore compenso alle soldatesche e ai capitani di ventura. Teodoro II peraltro ricompenserà più largamente Facino, infeudandogli il Borgo San Martino.
Tornato al servizio dei Visconti dopo la morte del duca Gian Galeazzo (1402), nel 1403 Facino riesce a sottomettere Bologna alla signoria viscontea, ottenendone anche il governo. Giunto all’apice di un potere ormai tanto militare quanto politico, conte di Biandrate e titolare di numerose signorie (Como, Novara, Piacenza, Varese, Vercelli, Vigevano etc.), sposa Beatrice Cane, figlia del potente cugino Ruggero Cane: donna volitiva e tenace quanto lui, dalla quale tuttavia non avrà figli.
Pavia è da tempo la sede di Facino, anche in quanto protettore del giovane conte Filippo Maria Visconti, fratello minore del duca di Milano Giovanni Maria. Non è forse casuale che, nelle stesse ore della morte di Facino, Giovanni Maria venga assassinato davanti alla chiesa di San Gottardo in Corte a Milano da un gruppo di congiurati, membri di importanti famiglie locali quali i Pusterla, i Trivulzio, gli Aliprandi, i del Maino.
Tali ravvicinate morti fanno confluire sulla massiccia testa (effigiata in un medaglione del Pisanello) e sulle malferme gambe (figlio di cugini primi, si dice riuscisse a stento a camminare) del ventenne Filippo Maria Visconti quanto forse non osava sperare. Il testamento di Facino prevedeva infatti che l’ingente suo patrimonio sarebbe passato alla moglie se ella si fosse risposata con Filippo Maria.
Chi era allora in realtà cotale ambita ed ambiziosa nobildonna? L’Enciclopedia Italiana Treccani, alla voce “Beatrice, duchessa di Milano”, compilata nel 1930 da Ettore Verga, la afferma “Nata nel 1372 nel castello di Tenda, da Pietro Balbo Lascaris, conte di Ventimiglia e signore di Tenda e, probabilmente, da Margherita del Carretto, dei marchesi del Finale”.
Uno short biografico ispirato alla fonte primaria esistente su Beatrice: l’Historia di Milano di Bernardino Corio (Venezia 1515). Narrazione in tal parte inesatta se non mendace, cui però tutte le storie seguenti si ispireranno, soprattutto agli inizi dell’Ottocento, quando l’immagine e la storia della duchessa si inseriranno a pennello nell’onda romantica, come non poche altre altre eroine, sante o peccatrici che fossero.
Tempestiva è la poetessa e scrittrice Diodata Roero, contessa di Saluzzo: con il romanzo Il Castello di Binasco (Firenze,Tipografia e Calcografia Goldoniana, 1824) e con la novella Beatrice di Tenda (Firenze, Vincenzo Batelli 1835).
La segue in teatro Carlo Tedaldi Fores, con Beatrice di Tenda Tragedia Istorica (Milano, Società Tipografica de’ Classici Italiani, 1825).
E a seguire Pietro Marocco, con Il Castello di Binasco (Milano, Felice Rusconi, 1829) e Giambattista Bazzoni, con i Racconti Storici: Macaruffo Venturiero o La Corte del Duca Filippo Maria Visconti (Milano, Omobono Manini, 1832).
Ed è a lei che Vincenzo Bellini e Giuditta Pasta pensano per un melodramma, dopo aver assistito al Teatro alla Scala, nell’autunno del 1832 all’“azione mimico-istorica” Beatrice di Tenda del prolifico coreografo Antonio Monticini. L’opera di Bellini, su libretto di Felice Romani, vedrà la luce al Teatro La Fenice di Venezia il 16 marzo 1833, con un successo all’inizio contenuto, poi a dismisura crescente negli anni.
Per tutti costoro la Beatrice di cui si parla è dunque la figlia del conte di Tenda Pietro Lascaris? Così si crederà anche oltre l’autorevole voce della Treccani sopra riportata.
La verità uscirà alla luce solo nel 1956, grazie a Francesco Cognasso e al suo Chi sia stata Beatrice di Tenda duchessa di Milano (Torino, Deputazione Italiana di Storia Patria), nel quale l’autore rende noto un documento d’epoca coevo ai fatti, ove la stessa Beatrice si dichiara figlia ed erede di Ruggero Cane.
Ne è riprova una successiva corrispondenza fra Beatrice e il doge di Genova, Giorgio Adorno, nella quale entrambi parlano lei del proprio padre Ruggero, lui dell’amicizia che a questi l’aveva legato.
Verità è dunque che Ruggero, dalla moglie Giacobina degli Asinari, aveva avuto, fra il 1370 e il 1372, una figlia: Beatrice appunto. Come s’è visto, sposa in prime nozze di Facino; e, come ora vedremo, in seconde di Filippo Maria.
Un matrimonio giunto appena in tempo, si osservò da molti. Il Ducato di Milano era allora stretto da una duplice impasse, politica, nei rapporti con gli stati vicini, ed economica, con l’ormai totale assenza di fondi nei ducali forzieri.
Sgominato e fatto uccidere il rivale Estorre Visconti, Filippo Maria – personalità non solo segnata nel fisico, ma psicologicamente paranoica, ipocondriaca e superstiziosa, ma che il tempo rivelerà quella di un politico spregiudicato, crudele e pur d’eccezionale valore – offre subito qualche dimostrazione d’ingegno.
Facino aveva lasciato alla moglie Beatrice una somma di 400mila ducati e i vastissimi territori di cui era signore. Il suo esercito era inoltre il solo in grado di garantire a Filippo Maria la conquista e la difesa di Milano. Con l’intermediazione dell’arcivescovo Bartolomeo Capra, il matrimonio tra il giovane Vìsconti e l’assai più matura Beatrice (detta procax et avara dal cortigiano e storico Pier Candido Decembrio) viene annunciato già il 21 maggio 1412 ad Amedeo III di Savoia.
In un documento del 17 giugno seguente Beatrice è ormai detta “duchessa di Milano”. Vivrà nel castello di Porta Giovia (poi Sforzesco), i primi tempi sembra in concordia di “cubicolo e di mensa” col marito. Ed anche con un potere personale che la vede relazionarsi con l’imperatore Sigismondo del Lussemburgo, conquistare città e ottenere investiture, concludere trattati e firmarli insieme a Filippo Maria.
La certezza di non poter avere eredi, la gelosia verso una duchessa troppo protagonista, le mene di quei cortigiani che gli avevano messa vicino la giovane e bellissima dama di compagnia della moglie, Agnese del Maino (figlia del potente conte Ambrogio del Maino) – che, pur presa con violenza una prima volta, diverrà poi la sua influente e fertile amante –; tutto ciò è forse “ragion di disgusto del duca verso la duchessa”.
Certo è che Filippo Maria fa segretamente e abilmente montare un’accusa d’adulterio contro Beatrice e contro il suo creduto amante, il giovane conte (e musico di corte) Michele Orombello. Dopo un processo e non poche sessioni di tortura, stremati dopo ammissioni da parte di lui e tetragona fermezza da parte di lei, entrambi vengono condannati e decapitati, nel fosco castello di Binasco, la notte tra il 13 e il 14 settembre 1418. Anche sul patibolo, Beatrice si proclama fino all’ultimo istante “vittima innocente”. Suscitando già da allora e fino all’Ottocento contrapposti partiti di colpevolisti e innocentisti.
Filippo non avrà eredi neppur dalla seconda moglie Maria di Savoia, figlia del duca Amedeo VIII e di Maria di Borgogna, sposata nel 1427 al solo scopo di stabilire un’alleanza con i Savoia. Lasciata al suo destino e senza una degna dote dalla famiglia, vessata e tenuta da parte dal marito, Maria vivrà in solitudine fino alla morte nel 1469.
Sarà solo da Agnese del Maino che Filippo Maria avrà una figlia, Bianca Maria, legittimata dall’imperatore Sigismondo e poi sposa di Francesco Sforza. Con il loro primogenito, Galeazzo Maria, inizierà la dinastia degli Sforza duchi di Milano.
Su Galeazzo Maria peserà forse un’implicita maledizione di Beatrice. Di temperamento instabile e sregolato, Galeazzo Maria ha ripetuti contrasti con la madre, che esplodono al momento dell’ascesa al trono ducale dopo la morte del padre e che termineranno, secondo alcuni, in un venefico matricidio.
Il carattere difficile del duca, l’arroganza con cui trattava i suoi sottoposti, la sfrenata lussuria esercitata sia verso le mogli dei cortigiani, sia verso i paggi della corte, gli alieneranno le simpatie dell’aristocrazia. Una congiura di nobili milanesi, con il probabile supporto del re di Francia Luigi XI di Valois è presto ordita: Galeazzo Maria viene pugnalato da Giovanni Andrea Lampugnani, Girolamo Olgiati e Carlo Visconti sulla soglia della chiesa di Santo Stefano il 26 dicembre 1476, poco prima di compiere i 33 anni.
Viene sepolto di nascosto, durante la notte, in un punto imprecisato tra due colonne del Duomo. Si temono disordini pubblici, visto l’odio che s’era accumulato nei suoi confronti. Sarà il fratello quartogenito, Ludovico il Moro, a portare gli Sforza e Milano ad una gloria di potenza, di cultura e d’arte non inferiore a quella della grandi capitali del Rinascimento.
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