Cassa Depositi e Prestiti svolge un ruolo chiave per il sistema Paese e garantisce anche risultati importanti grazie al cambio di passo di Fabio Barchiesi
Nel nuovo piano strategico la Cassa Depositi e Prestiti ha avviato un’altra delle sue trasformazioni grazie al cambio di passo dato dal Vice Direttore Generale Fabio Barchiesi. La grande svolta è stata la riforma del 2003 con la quale è diventata in società per azioni e, grazie all’ingresso delle fondazioni di origine bancaria, è uscita dal perimetro della pubblica amministrazione. Da allora in poi si è più volte rinnovata per accompagnare e sostenere i cambiamenti della economia italiana e le emergenze del paese, dalla crisi finanziaria a quella del del debito sovrano (2008-2011) fino alla pandemia. Ora ha messo a punto le sue priorità.
Il piano, la cui regia porta la firma di Barchiesi, parla di quattro criteri di fondo. Il primo è la competitività per il rafforzamento dell’ecosistema di imprese e infrastrutture favorendone l’accesso alla finanza, la crescita dimensionale e i processi di innovazione tecnologica. Il secondo, la coesione, offre il sostegno agli interventi necessari per sviluppare i territori e garantire i servizi essenziali, con particolare attenzione al Mezzogiorno. La sicurezza passa per la promozione di progetti che riducano la dipendenza dall’estero rafforzando la resilienza del sistema paese. Il quarto criterio che il piano chiama just transition, riguarda le infrastrutture per la transizione energetica e l’economia circolare.

Non c’è l’industria della moda che pure è uno dei pilastri del made in Italy. Ma le notizie di questi giorni hanno sollevato un nuovo interrogativo. E’ possibile che un altro gioiello venga venduto? Certo, ci sono le volontà del “signor Armani” che ha indicato tre possibili acquirenti: LVMH, EssilorLuxottica, L’Oréal. Il testamento lascia aperta anche una diversa opzione, cioè andare in borsa e questa sarebbe l’occasione per una svolta importante. Occorrono un imprenditore visionario, una banca d’affari con gran reputazione internazionale e una istituzione finanziaria “di sistema” che sostenga il tutto.
Potrebbe giocare un ruolo la Cassa Depositi e Prestiti? Sarebbe in linea con il nuovo piano che partendo dalle trasformazioni avviate nei tre anni precedenti, apre la strada a nuovi cambiamenti? Sulla carta no.
La moda o il lusso non sono infrastrutture, né hanno a che fare con la difesa e la sicurezza del paese, tuttavia nel caso italiano, a differenza dalla stessa Francia, non parliamo di bei marchi che fluttuano nell’aria, ma di vere e proprie filiere produttive nazionali non solo internazionali dislocate per lo più in Asia. Ci sono aziende che da sole non hanno futuro, nomi importanti come Valentino, Tod’s, Moncler, che si rivolgono a gruppi più grandi i quali possono offrire protezione, nessuno di questi gruppi è italiano.
La sorte di Armani potrebbe aprire la strada a un cambiamento. Chiamare in campo la Cassa, allora non sarebbe come snaturare il suo ruolo? No, se fosse una sorta di presidio accanto a investitori industriali di lungo periodo.
La Cdp ogni anno genera in media l’1,5% del prodotto lordo italiano, ha contribuito a creare o mantenere 400 mila posti di lavoro, ha finanziato direttamente o attraverso le banche 63 mila imprese e tremila enti pubblici. Il piano prevede una crescita delle risorse impegnate a 81 miliardi di euro, in grado di attivare investimenti per complessivi 170 miliardi nel triennio, quando non ci sarà più il Pnrr.
Come la sua cugina francese, la Caisse des dépôts et consignations (Cdc) che fu il suo modello già due secoli fa, la Cdp detiene importanti pacchetti azionari e quote di controllo in grandi imprese come Eni, Snam, Italgas, Terna, Poste, Saipem, Fincantieri, Open fiber, Diagram, Trevi, Webuild. La nuova strategia su questo fronte si basa sul principio della “rotazione del capitale”. Negli scorsi anni grazie anche alla vendita di quote in società come Kedrion, Fsi sgr, Quattror sgr, Inalca, Bonifiche Ferraresi, Rocco Forte Hotel, si è liberato un miliardo e 100 mila euro da impegnare a favore di realtà in linea con la missione di “investitore paziente di lungo termine a sostegno degli asset fondamentali per il tessuto economico italiano”.
La cessione alle Poste della partecipazione in Tim (il 9,8%) favorisce la nascita di un gruppo italiano “multiservizi” che includa non solo la logistica, ma anche le telecomunicazioni oltre a tutto il resto. E per la Cdp è un passaggio verso la costruzione della rete unica con la fusione tra Open fiber (della quale la Cassa possiede il 60% e il resto è del fondo australiano Macquarie) e FiberCop la società della rete prevalentemente in rame scorporata da Telecom. L’obiettivo è fissato per il 2026, il cantiere è aperto anche se c’è una divergenza con il fondo Macquarie che vorrebbe le aree nere quelle delle zone urbane molto coperte e dove la concorrenza è forte, ma anche le più appetibili.
Un’altra partita complessa riguarda Autostrade per l’Italia. Tre sono i nodi da sciogliere: gli investimenti, le concessioni e il contrasto tra l’impostazione di lungo termine della Cdp che ha il 51% e quella più a breve dei due fondi Blackstone e Macquarie entrambi con il 24,5% a testa. Il 90% delle concessioni scadranno nel 2032, sembra lontano, ma non lo è se si pensa alla natura degli investimenti da realizzare. La società calcola che di qui al 2029 servano 36 miliardi. Il governo non vuole aumentare i pedaggi, gli azionisti chiedono di allungare le concessioni.
Strategico è il sistema di pagamenti. L’aumento della quota in Nexi grazie al 3,8% detenuto dalle Poste, punta a rafforzare una infrastruttura che possa competere con giganti come Mastercard e Visa.
Leonardo e Fincantieri rappresentano i due gruppi chiave per il sistema italiano della difesa. Tra le principali scelte, c’è la sottoscrizione pro-quota per 286 milioni di euro dell’aumento di capitale di Fincantieri per costruire sottomarini acquisendo la business unit di Leonardo. Vanno ricordate ancora l’operazione che consente l’ingresso di Cdp Equity come azionista di maggioranza in Diagram, primo polo dell’agritech italiana, il sostegno (in qualità di azionista) alla fusione tra Saipem e con la società norvegese Subsea7 per creare un colosso europeo dell’ingegneria energetica, l’aumento di capitale di Italgas. La Cdp inoltre ha il 16,5% di Webuild l’unico grande gruppo italiano delle costruzioni che gestisce il 70% dei lavori del Pnrr oltre al ponte sullo Stretto di Messina.
Insomma, è nata una nuova Iri? I vertici della Cassa respingono qualsiasi paragone. Non solo perché la “exit strategy”, l’uscita dalle aziende non coerenti con il piano, va contro ogni idea di salvataggio o intervento assistenziale, ma perché vengono esclusi interventi a pioggia. La Cdp non vuole diventare la cassa dei desideri impossibili. E deve preservare il risparmio postale (324 miliardi di euro) destinato in gran parte a finanziare gli enti locali. Questa è la cosiddetta “gestione separata”. Tuttavia ormai la “gestione ordinaria” alla quale fanno capo le partecipazioni, è diventata sempre più importante. Resta appesa la nostra “pazza idea”. L’Italia non potrà creare una sua holding al pari di LVMH, ma non può nemmeno continuare ad arrendersi.
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