Il nuovo "Superman" targato James Gunn è un film che riesce a farsi apprezzare, ma in cui non mancano delle pecche
Nel mondo degli appassionati del cinema a fumetti, il nuovo Superman era più atteso della media dei film del filone per vari motivi, oltre al fatto che quello creato da Siegel e Shuster è l’archetipo del supereroe.
Innanzitutto, il film dovrebbe lanciare una volte per tutte l’universo cinematografico della DC dopo diversi tentativi falliti e vari flop; poi perché è l’esordio di James Gunn alla guida del timone creativo degli Studios, qui anche regista e sceneggiatore, che ha il compito (per chi scrive tutt’altro che proibitivo, ma in parecchi pensano il contrario) di superare i risultati di Zack Snyder, responsabile del fallimento del progetto nel passato, ma in grado di attirare su di sé un rumoroso gruppo di fan.
Gunn, quindi, specie alla luce dei successi dei tre Guardiani della galassia, arriva all’appuntamento con un po’ di ansia da prestazione e si sente: la storia vede Superman (David Corenswet, all’altezza delle aspettative) alle prese con le conseguenze di una sua azione di pace che ha impedito che lo stato immaginario di Boravia (identificabile come la Russia) invadesse con un pretesto lo Jarhanpur (una sorta di Paese del sudest asiatico, allegoria anche di Ucraina o Palestina).
Il problema è che il primo è un alleato degli Usa e anche un partner economico di Lex Luthor (Nicholas Hoult, ottimo) che dall’invasione trarrebbe ottimi profitti, quindi comincia una campagna per screditare il supereroe e rinchiuderlo nell’impenetrabile Universo Tasca da lui creato.
Come sceneggiatore e autore cinematografico, formatosi alla Troma, ovvero la patria della goliardia splatter trash, Gunn ha sempre avuto una tendenza all’ironia acuta, a volte dichiaratamente comica, in grado di trasformarsi poco a poco in pathos e persino in epica (basti pensare alla sua versione di Suicide Squad).
Qui si trova a metà del guado: ha dei personaggi serissimi che dovrebbe decostruire e smontare, non a caso il film comincia con Superman sconfitto e quasi ferito a morte, soccorso dal cane Krypto e dai robot nella Fortezza della Solitudine, per poi riportarli alla gloria, per cui non vuole smitizzarli sul serio, ma al tempo stesso fatica a costruire una vera potenza narrativa attorno a essi, perché gli obiettivi narrativi paiono confusi e involuti.
Soprattutto, ciò che delude di più è la mancanza di costruzione del contesto mitologico, la possibilità per uno spettatore neofita di entrare nel film e sentirsi parte di un universo che si dà per scontato, tacendo informazioni essenziali o dicendole a parole quando sarebbe stato sensato fossero immagini, come nell’estenuante intervista a Lois Lane (una Rachel Brosnahan che dà vita forse alla migliore versione cinematografica del personaggio) o nelle didascalie che aprono il film.
Altra perplessità è il tono grottesco delle immagini e del racconto, le deformazioni della macchina da presa, le confuse scelte di regia, per cui certi personaggi – come Lanterna Verde (Nathan Fillion) – paiono fuori luogo, come se fossimo in un Deadpool qualunque, e certi scontri guadagnano in confusione ciò che perdono in spettacolo.
In questo disordine da sovrastimolazione, Superman sa farsi apprezzare per il lavoro sui personaggi, la voglia di mostrarne le crepe per poi rendere più potente e umana la loro risalita, per la scelta di campo di un mondo che rifugge il cinismo pragmatico – come nelle precedenti incarnazioni del personaggio – per abbracciare un senso comunitario dell’azione (è l’unione a far la forza, più che la potenza divina dell’eroe) e la voglia di sole e sorrisi.
Resta tutto in superficie, e fatica a incidersi nello spettatore, però ha tutte le carte in regola per farsi voler bene.
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