In Myanmar la giunta militare golpista approfitta della distruzione per reprimere i ribelli e bombardarli. Ma c’è un bene che resiste

Sono ormai due giorni dalla scossa potentissima che ha seminato distruzione e morte in Myanmar-Birmania. L’Osservatore romano ha scelto per la prima pagina questo titolo: “Ecatombe”. Nella gamma della tragedia è il massimo grado. Non c’è alcuna esagerazione. Non c’è solo il sisma di intensità clamorosa (7,7 Richter con l’aggravante di essersi sviluppato a scarsa profondità), con una capacità di far valere la sua carica di terrore in sei Paesi (oltre al Myanmar: Thailandia, Cina, India, Bangladesh e Laos).



Le forze della natura si sommano a una guerra civile in corso dal 2021, e il terremoto invece di sospendere la lotta fratricida si è trasformato in un’occasione per colpire a tradimento. La giunta militare al potere ha infatti, già un’ora dopo, insistito in bombardamenti aerei: quale migliore occasione per un attacco a sorpresa, quando cadono le braccia di fronte ai lutti, e chi può non prende il fucile, ma afferra la vanga, e usa le mani per cercare di salvare chi urla da sotto le macerie.



Bisogna iniziare guardando la realtà, ma tutta però. Non c’è solo lo scenario di desolazione convulsa dove al susseguirsi delle scosse, che con i loro rimbombi atterriscono, si mescolano atti di guerra. Ci sono anche scintille di bontà.

Una solidarietà fraterna vede il coinvolgimento ovunque di presenze cristiane con comunità di buddisti e di musulmani, in totale controtendenza rispetto alla cecità governativa. A Mandalay, e nella regione epicentro del terremoto. i salesiani di don Bosco e le suore di Maria Ausiliatrice, come accade nella parrocchia cattolica di Gaza, sono un cuore pulsante di soccorso e conforto.



Sono crollate chiese e alcuni fedeli cattolici sono rimasti feriti mentre adoravano il Santissimo, ma da sotto le macerie delle moschee, che essendo venerdì mezzogiorno erano piene, si aiutano ecumenicamente i soccorsi: tirar fuori i feriti e deporre con pietà i corpi dei morti. Che sono tanti.

Le vittime e i soccorsi internazionali

Qualche dato? Il contatore non si ferma. Le cifre sull’entità della tragedia non valgono nulla se non per la loro progressione. L’ultimo numero ufficiale diceva: 1.644 morti. Erano mille poche ore prima. Gli esperti dell’United States Geological Survey prevedono un bilancio finale che moltiplicherà per 10 i lutti. Si usa in questi casi la parola “ufficiale” da parte delle agenzie internazionali per segnalare che la fonte è il governo. Ma che ne sa questa giunta militare dittatoriale, che controlla poco più di un terzo del territorio?

Le comunicazioni erano problematiche già da prima, e di certo le forze di liberazione che amministrano città, villaggi e campi nella foresta non hanno alcuna ragione di fornire la localizzazione dei punti critici ai carnefici.

Tutto questo fa prevedere che i soccorsi internazionali indispensabili saranno un’impresa che, in questo stato di belligeranza ostinata, si presenta pericoloso e quasi impossibile. E presto si porrà la questione oltre che dei feriti – lasciati in questi giorni fuori degli ospedali crollati e curati come si può, in totale assenza di medicinali –, di scongiurare contagi.

La Cina e l’India hanno inviato aerei carichi di kit di pronto soccorso e di prodotti igienici e alimentari per le emergenze, oltre che squadre di medici e genieri, nel mondo gli Stati annunciano aiuti massicci: ma come si fa a credere che raggiungeranno anche i nemici delle autorità centrali, che hanno per la prima volta accettato soccorsi dall’estero e fatto appelli disperati?

Il fatto è che per questa giunta militare e per il suo leader, il generale Min Aung Hlaing, il bene comune coincide con quello della loro cerchia e dell’esercito. L’Unione Europea, la Caritas internazionale, gli Usa, la gente di buona volontà metterà gli aiuti nelle mani di un uomo per il quale la Corte internazionale dell’Aja ha spiccato un mandato d’arresto per crimini contro l’umanità?

Le prospettive sono cattive. L’ascesa al potere di Min Aung Hlaing, nel febbraio del 2021, è stata il risultato di un intreccio di brutalità e opportunismo politico. E il dittatore ha confermato subito la propria feroce identità accompagnando il suo appello alla comunità internazionale con gli ordini alla sua aviazione di dirigersi contro la resistenza.

La solidarietà con essere umani vessati, e stritolati sotto ogni aspetto, deve farsi largo comunque, a qualsiasi costo. Sentiremo oggi a mezzogiorno dopo l’Angelus le parole che il Papa non potrà pronunciare di persona, ma chiameranno ad una tregua, almeno lì le armi tacciano senza condizioni.

La situazione politica in Myanmar

Occorre qualche considerazione geopolitica. Il Myanmar (che è un termine internazionalmente imposto da una delle giunte militari che si sono susseguite negli anni per marcare meglio il territorio, ed ha lo stesso significato del nome Birmania) ha 55 milioni di abitanti, una superficie grande due volte l’Italia, e ricchissima di materie prime (legname, zaffiri, gas, e tanto altro). Lo Stato è un groviglio di gruppi etnici e religiosi, sono più di 130, sparsi specialmente lungo la periferia delle zone di confine con India, Thailandia e Cina. Molti di questi gruppi combattono da molti anni gli onnipotenti militari birmani.

Il golpe del 2021 è infatti soltanto l’ultimo atto della loro prepotenza. Nel 2011 si erano aperti alla democrazia, nel 2015 i militari avevano consentito regolari elezioni che avevano visto il trionfo del partito di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace del 1991, con l’86% dei voti, confermato nel novembre del 2020 alle legislative con l’80%. Ed ecco il febbraio seguente il golpe, e l’ascesa del dittatore unico. La sollevazione popolare, cui si aggiunge la creazione di otto eserciti di resistenza, due dei quali composti da cristiani (che sono poco più di due milioni, e sono perseguitati come i musulmani, specialmente i Rohingya), ed il resto da buddisti e islamici appartenenti a gruppi etnici minoritari rispetto all’etnia dominante dei Bamar (il 69% della popolazione).

La giunta militare, composta principalmente da Bamar, aveva proclamato l’edificazione dello Stato su tre pilastri: nazionalismo, socialismo e buddismo. Chi non ci sta, è messo a tacere. Ma non sta più funzionando. E il regime è sotto scacco, e se non fosse per la Cina soccomberebbe.

Con “Operazione 1027”, nell’ottobre 2023 gli arakanesi, buddisti, che vivono lungo il confine con il Bangladesh, forti di un esercito bene addestrato di 35mila uomini e donne, hanno inflitto pesanti sconfitte alle forze governative. Decine di città sono passate sotto il loro controllo. Nel frattempo i Karen (cristiani battisti), insediati nella parte orientale del Paese, al confine con la Thailandia, sono anch’essi passati all’offensiva, conquistando la città di Myawaddy, il principale punto di attraversamento tra Birmania e Thailandia. È dal ’49 che combattono i militari.

A questo fronte storico bisogna aggiungere quello degli Shan (spesso coinvolti nel traffico di droga), quello dei Karenni, dei Mon, dei Kachin e, da poco tempo, quello dei Chin, quindi a ovest, sul versante indiano.

Da circa un anno i vari eserciti degli insorti stanno coordinandosi. Essi invocano l’aiuto dell’Occidente. Il quale ha occhi per le crisi dove è direttamente implicato, cioè per il fronte ucraino e quello del Medio Oriente, mentre l’America e l’Australia badano alla situazione di Taiwan. E né Ue, né Usa vogliono grane con la Cina, che sostiene il regime vigente con le armi, ma per prudenza – non si sa mai come andrà a finire: la teoria confucian-andreottiana dei due forni – finanzia anche alcune frange dei ribelli.

Intanto la Resistenza controlla tutti i confini, e la giunta si è ristretta in una sorta di ridotta della Valtellina, nel centro del Paese, tra Rangoon, la sua città più grande con quasi cinque milioni di abitanti, e Naypyidaw, la capitale scelta dai militari nel 2005 (un milione e mezzo di residenti). La Cina è in difficoltà, per questo sta cercando una strategia per salvare comunque i suoi interessi chiunque vinca. Xi punta sul progetto (da 8 miliardi di dollari di investimento) di una zona economica sostenuta da un porto in acque profonde ad Arakan, che consenta un accesso diretto all’Oceano Indiano senza passare attraverso lo Stretto di Malacca.

Si susseguono, raccontate per telefono, le storie che nulla hanno a che fare con gli imperi e i loro interessi. È la piccola grande vita del popolo minuto, buona parte del quale vive in povertà, e conta di sopravvivere. Vogliamo aiutare loro, attenti a che il gioco diplomatico e i rapporti di forza, almeno per un minuto della storia, lascino prevalere il bisogno degli ultimi tra gli ultimi della terra.

P.S. L’AVSI da qualche anno è presente in alcune delle province più colpite della Birmania tramite alcuni enti partner. È stata aperta una campagna di raccolta fondi. Può essere un modo per portare un segno di speranza. Questo è il link.

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