Risvegliarsi la prima domenica del Torino Film Festival senza i postumi della consueta maratona notturna della Notte Horror è singolare, come lo è non potersi godere il freddo calmo di una mattina domenicale nella capitale sabauda. Anche dover pensare a un palinsesto – e commentarlo – quando la fruizione è contemporanea e in streaming non è facilissimo, ma ci si prova.
Il terzo giorno di festival vede il concorso entrare nel vivo con uno dei favoriti alla vittoria finale, Wildfire, esordio nel lungometraggio di Cathy Brady che racconta il rapporto tra due sorelle, un sentimento fragile come la psiche di una delle due, reso ancora più incendiario dai segreti e dai rapporti familiari. Usando bene il confine irlandese, Brady si concentra sui personaggi e sulla loro scrittura, realizzando un film solido e compatto, che non brilla di originalità, anzi soprattutto nello sviluppo del racconto pecca di prevedibilità, ma che sa estrarre momenti di intimità tra sorelle (attrici bravissime, con un cenno a Nika McGuigan, morta dopo la fine delle riprese) abbastanza laceranti.
Del tutto contemplativo, ma anche piuttosto empatico è Gunda, documentario – o film di non-fiction a essere più precisi – di Victor Kosakovskiy che segue la vita quotidiana di una scrofa, dei suoi piccoli e dei “compagni” di fattoria, una gallina zoppa e alcune mucche: senza umanizzazioni disneyane, con un bianco e nero molto raffinato, il regista chiede allo spettatore di entrare in una dimensione che va oltre la fattoria, attraverso lo stile e i suoni fa vivere un altrove in cui l’uomo è un’eco, ma il destino degli animali è vivo e presente. Un film seducente, animalista, profondo.
Verso una dimensione diaristica si sposta invece Davide Ferrario, assieme al poeta Franco Arminio, in Nuovo cinema paralitico, una raccolta di corti o micrometraggi che raccontano l’Italia attraverso delle microporzioni di luoghi e territori, in cui lo sguardo fermo (paralitico in questo senso, un cinema che non vuole muoversi, ma vuole guardare e pensare) genera riflessioni, magari un po’ troppo poeticizzanti, ma anche curiose, a volte preziose, specie in un momento storico che chiede di fermarci a guardare l’infinitamente piccolo davanti a noi.