Grazie ai due protagonisti principali ben interpretati, la miniserie "The beast in me" riesce a catturare lo spettatore
In The beast in me – la miniserie thriller apparsa su Netflix due settimane fa – c’è qualcosa di familiare e, allo stesso tempo, di sorprendentemente nuovo. Merito soprattutto di Clare Daves, che torna a muoversi in quel territorio emotivo e ricco di azione che aveva reso Homeland un grande successo: la capacità di stare sempre un passo avanti alla scena, e un passo indietro rispetto a se stessa.
Qui ritroviamo la stessa intensità, la stessa lucidità che corre sul filo di una donna intelligente ma vulnerabilità. Non ha il fisico adatto, ma è pur sempre una donna di azione, non è bellissima come tante sue colleghe, ma ha fascino da vendere.
La Daves Interpreta Aggie Wiggs, una famosa scrittrice di libri biografici a secco di idee e di progetti. Dopo la morte accidentale del figlio si è ritirata dalla società. Vive da sola in un posto isolato, in una grande casa, tra scarichi intasati e perdite d’acqua, che andrebbe seriamente ristrutturata. La sua solitudine è bruscamente interrotta dall’arrivo nella casa accanto della famiglia rumorosa di un personaggio famoso.
E proprio questo nuovo vicino l’elemento che davvero definisce il ritmo di The beast in me. Interpretato da Matthew Rhys, il protagonista maschile è Nile Jarvis, un ricco immobiliarista dal passato opaco e dalla reputazione consumata da sospetti mai del tutto chiariti sulla morte – o meglio la scomparsa – della sua ex moglie.
Rhys interpreta Jarvis con una complessità magnetica: un uomo che sa essere brillante e disarmante, gentile e inquietante nello stesso tempo, come se ogni suo gesto nascondesse qualcosa che non vuole mai rivelare del tutto. È lui a imporre l’andatura della storia, obbligando lo spettatore a rinegoziare continuamente la percezione che si ha di lui. Percezione che cambia anche per Aggie, al punto tale che la scrittrice in crisi che è in lei si risveglia all’idea di scrivere la sua biografia.
La trama ruota proprio attorno a questa ambiguità: The beast in me non costruisce un thriller basato sul colpo di scena, ma si tratta piuttosto di un viaggio psicologico in cui la verità è qualcosa che si insinua lentamente, tra l’attrazione e il sospetto.
Nile Jarvis diventa il baricentro di questa tensione: un uomo che potrebbe essere una vittima delle dicerie o una minaccia abilmente mascherata. La serie gioca a lungo con entrambe le possibilità, e Rhys le incarna con una maestria che spinge ogni scena in un territorio instabile. Almeno fino a quando la verità emerge inesorabilmente.
Clare Daves, dal canto suo, è l’unica in grado di reggere una storia del genere: non lo teme, non lo idolatra, lo studia. Tra i due si crea un dialogo vivo, carico di elettricità e molti silenzi sospesi. È in proprio nei dialoghi tra i due protagonisti che la serie trova la sua dimensione originale, fatta di diffidenza, curiosità e un’attrazione che nessuno dei due sembra riuscire a controllare davvero.
The beast in me funziona proprio così: eliminando il superfluo e appoggiandosi alla profondità dei suoi due interpreti. Clare Daves conferma le qualità che l’hanno resa memorabile nelle sue prove più celebri, mentre Matthew Rhys costruisce un personaggio enigmatico che, scena dopo scena, incarna perfettamente la “bestia” del titolo, il suo specchio più fedele.
Il risultato è una serie, The beast in me, che cattura senza trucchi, lasciando che siano le sfumature dei suoi personaggi ad appassionare lo spettatore.
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