Il film di Nora Fingscheidt "The Outrun" dà l'impressione di sprecare i suoi punti di forza per via di una scelta narrativa
Per raccontare una storia che sulla carta appare banale, convenzionale e già sentita, bisogna avere un punto di vista preciso, non per forza originale, ma peculiare, sia dal punto di vista narrativo che visivo. The Outrun, opera terza della regista tedesca Nora Fingscheidt, questi punti di vista li ha, ma dà l’impressione di sprecarli.
Il punto di vista narrativo è quello del libro autobiografico “Nelle terre estreme” di Amy Liptrot, la quale ha scritto il copione con la regista: racconta di una ragazza (interpretata da Saoirse Ronan) che torna a casa propria, nelle inospitali Isole Orcadi, per disintossicarsi e riprendersi la propria vita che alcool e sostanze varie avevano interrotto. Qui, oltre a una natura che richiama quotidianamente il suo posto nella vita, deve fare i conti con la propria famiglia e i ricordi del passato.
Il punto di vista visivo è appunto quello fornito dalle Orcadi, situate a nord della Scozia, difese da torreggianti scogli e costantemente battute da pioggia e vento: qui Rona, che studia per diventare biologa marina, deve ritrovare sé stessa, in un posto di confine che pare il punto di congiunzione tra leggenda e scienza. Su queste assi, Fingschedit costruisce un film come The Outrun che racconta come un corpo e una personalità estranei a un contesto, a un mondo, lavorino per integrarsi e reintegrarsi a quel mondo.
Una mano in questo lavoro, anzi due mani, due gambe e un viso molto espressivo, gliela dà Ronan, su cui di fatto regista e scrittrice poggiano una gran parte del lavoro emotivo e comunicativo; resta nell’aria però quel senso di spreco dovuto alla struttura scelta per narrare la storia, ovvero quella di interrompere ogni cinque o dieci minuti il racconto principale, ovvero su cui poggiano i punti di vista, per andare indietro nel tempo, esplicitare tutta la convenzionalità di fondo mostrando lo sballo, la dipendenza, le difficoltà viste mille volte e viste proprio così, con effetti grafici e filtri video vecchi già 30 anni fa.
Se si riesce a soprassedere a questo senso irritante, che serve a rendere tutto chiaro al pubblico, palesargli ogni elemento che potrebbe invece fertilmente covare nell’ombra – non avendo più l’alibi dello sfogo personale come nel libro – allora The Outrun è un film che ha una sua propria vita, evidente soprattutto nel finale, quando il rapporto tra mitologia e realismo prende forma e vita, quando basta un piccolo verso di un animale immaginario per aprire nuove prospettive.
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