Il film "Thunderbolts*" è molto consapevole del suo ruolo, della sua natura produttiva, e su essa ci lavora e gioca
Il significato di quell’asterisco alla fine del titolo è stato rivelato pochi giorni dopo l’uscita e non c’entra con la correttezza politica del linguaggio: è come il rimando di una nota a margine (a margine, come gli eroi che racconta) che dice che Thunderbolts* è *I nuovi Avengers.
Questo sono gli scalcinati anti-eroi che agiscono nel nuovo film dei Marvel Studios, obbligati alla missione suicida di salvare un mondo in cui gli eroi sono morti o in pensione e un franchise a cui gli spettatori hanno voltato le spalle, prima dell’avvento dei Fantastici 4 e della fase 6, che coronerà l’ascesa di Robert Downey jr. come Doom.
La squadra di reietti è composta da ex-supereroi finiti male per vari motivi, tutti mercenari alle dipendenze della contessa de Fontaine (Julia Louis-Dreyfus), la quale è sotto processo da parte del Congresso Usa per attività illegali che riguardano esperimenti pericolosi, tanto pericolosi da decidere di uccidere proprio quegli eroi che potrebbero essere prove a suo carico. Yelena (Florence Pugh) e il resto della squadra riesce a salvarsi, ma deve affrontare l’ultima creazione della contessa, Sentry, un supereroe onnipotente e pericolosissimo.
Diretto da Jake Schreier e scritto da Eric Pearson e Joanna Calo, Thunderbolts* è un’opera estremamente consapevole della sua natura e delle sue finalità, che non solo funge da innesco per un nuovo ciclo produttivo, ma che pare riflettere anche sulla situazione in cui quell’universo si trova, facendo leva su questo per affrontare temi raramente affrontati nel mondo dei supereroi, perlomeno di quelli mainstream.
Il film, infatti, si apre con lo spettro del suicidio e vede Yelena alle prese con tendenze depressive più o meno latenti seguenti la morte della sorella Natasha, ma il malessere intimo, il disagio psicologico accomuna anche altri membri del team, e soprattutto la figura di Bob, che poi diventerà Sentry, un uomo dalla mente tormentata la cui illimitata potenza scatenerà il Vuoto che inghiottirà New York.
Thunderbolts*, con una certa dose di coraggio, vuole raccontare i fantasmi della mente e della psiche, il lavoro sovrumano ed eroico che serve per affrontarli, facendone una metafora fertile per l’azione, ma anche comunicativa.
D’altro canto, è anche un film molto consapevole del suo ruolo, della sua natura produttiva, e su essa ci lavora e gioca: il Vuoto scatenato da Sentry ricorda il Nulla de La storia infinita, e la situazione in cui si trova la Marvel è simile a quella di Fantasia, con gli spettatori che si stanno dimenticando la passione per quell’universo, il fallimento di un immaginario di cui questi anti-eroi sono scarti repliche degradate, usate per tappare un buco.
Su questo, Schreier e gli attori giocano e vincono, coscienti di essere in una specie brutta copia che prende vita e forza e trova una sua direzione, una sua specificità, che imita dappertutto (Sebastian Stan conciato come Schwarzenegger in Terminator 2, Sentry che pare un rip-off di Superman, la scena madre che imita Se mi lasci ti cancello, grande film sul disagio mentale), ma rende quelle imitazioni parte di un discorso e di un pensiero.
È un film perdente, fatto di perdenti, ma che sanno come farti tifare per loro.
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