L’operazione di Israele nella Striscia di Gaza permetterebbe di ristabilire la supremazia demografica degli ebrei: oggi i palestinesi sono in maggioranza
Il tema è stato ripreso da Joseph Massad, professore di politica araba moderna e storia intellettuale alla Columbia University di New York, che in un articolo pubblicato su Middle East Eye ha messo in relazione l’operazione militare messa in atto a Gaza con la necessità, per Israele, di recuperare la maggioranza ebraica che dal punto di vista demografico aveva ottenuto attraverso la Nakba del 1948. I numeri del 2020 parlano di una popolazione israeliana di oltre 9 milioni, tra i quali quasi 2 milioni di palestinesi, cui si aggiungono altri 3 milioni di persone in Cisgiordania e 2 milioni a Gaza, con gli ebrei attestati quindi al 47%.
Si tratta di un tema sempre presente nella storia di Israele, osserva Sherif El Sebaie, opinionista egiziano esperto di geopolitica del Medio Oriente, che ha ancora un suo peso. Per questo, se la comunità internazionale non si muoverà, in particolare i Paesi che finora in Occidente hanno sostenuto Israele, è probabile che si continui sulla strada dello svuotamento della Striscia, creando le condizioni per cui i palestinesi debbano andarsene.
Dietro l’idea di espellere i palestinesi da Gaza c’è anche la necessità di Israele di riaffermare la superiorità numerica dal punto di vista demografico?
La preoccupazione demografica è alla base stessa del concetto dello Stato israeliano, perché si basa sul principio che a decidere sia una maggioranza di ebrei. Se questa maggioranza non esiste, è a rischio uno dei presupposti dello Stato di Israele.
E siccome gli arabi in generale sono abbastanza prolifici, la “minaccia” demografica esiste da sempre. In questi giorni si è parlato della tragedia di una madre palestinese, la pediatra Alaa, morta sotto i bombardamenti con nove dei suoi dieci figli: un episodio che, nella sua gravità, ci dà l’idea dello squilibrio nella natalità. Numeri simili per una famiglia israeliana si trovano solo nella componente ebraico-ortodossa. È chiaro che c’è una specie di lotta demografica tra arabi e israeliani e, affinché Israele sopravviva come Stato ebraico, è necessario conservare una superiorità demografica.
Una questione che ha inciso anche nella storia di Israele?
È sempre stata anche all’origine del rifiuto del ritorno in patria dei profughi della Nakba del 1948, o meglio, dei loro discendenti: un ritorno in massa che sconvolgerebbe completamente gli equilibri demografici di Israele.
Espellere i palestinesi dalla Striscia diventa, quindi, una sorta di questione di “sopravvivenza” in questa ottica?
Sì. Israele, secondo il punto di vista arabo, è nato sull’idea di svuotare la terra dai palestinesi per farla occupare da immigrati ebrei. Per gli arabi, quello che sta succedendo adesso non è altro che la prosecuzione di un piano messo a punto ancora prima della dichiarazione della nascita dello Stato di Israele, uno dei piani strategici messi a punto dal movimento sionista.
Ma questa superiorità demografica Israele non riesce a mantenerla richiamando, come ha fatto finora, gli ebrei nel mondo perché si stabiliscano nel Paese?
Israele ha ancora, ovviamente, le sue politiche migratorie che, pian piano, si sono sempre più allargate, però il numero di ebrei che vivono altrove è comunque circoscritto e non tutti sono disposti a trasferirsi in un Paese che è continuamente in guerra. Anzi, dal 7 Ottobre in poi, molti hanno deciso addirittura di andarsene e di tornare nei loro Paesi di origine. Poi c’è un’altra questione legata al tipo di immigrazione ebraica, nella quale ritroviamo background etnico-culturali diversi. Un tema che pone anche delle sfide all’interno di Israele, dove si dibatte su come portare avanti questo processo di immigrazione. C’è una differenza tra sefarditi e aschenaziti, tra coloro che provengono dalla Russia e chi arriva dall’Etiopia.
La società israeliana deve fare i conti anche con la sua composizione interna?
Chi conosce la società israeliana sa che ci sono delle tensioni latenti e che ciò che tiene insieme il Paese non è tanto la fede comune, ma il fatto che c’è una minaccia comune. In realtà, il 7 Ottobre ha rinsaldato da un certo punto di vista il fronte interno che aveva cominciato a mostrare delle crepe.
Questo tema che luce getta sul futuro di Gaza, quale scenario disegna? Israele andrà avanti sulla strada dell’espulsione dei palestinesi?
Se non ci sarà una presa di posizione contraria forte da parte dei sostenitori stessi di Israele, da parte dei suoi sponsor principali, degli Stati Uniti e dell’Europa, lo scenario potrà essere proprio l’espulsione. Alcuni Paesi, come Francia e Spagna, stanno alzando un po’ la voce. Altrimenti, Israele non ha motivo di fermarsi. Al momento, il piano è già a buon punto: non è necessario espellere i palestinesi, basta vedere le foto di Gaza e si capisce che è solo un cumulo di macerie. Come si fa a viverci? Senza servizi, infrastrutture e aiuti, prima o poi saranno gli stessi palestinesi a scegliere di andarsene. Questa sembra essere la scommessa di Israele. Se non cambia niente, basterà aprire le porte della Striscia, ammesso che poi qualcuno voglia accogliere queste persone.
Ma questa idea che Israele è sempre minacciato non rischia di far implodere lo Stato stesso?
È un rischio che Israele corre, confermato anche dalle voci che arrivano dall’interno dell’apparato militare, che criticano le modalità con cui viene portata avanti l’operazione che dura da un anno e mezzo a questa parte. C’è anche un altro pericolo, messo in evidenza dall’attentato di Washington: che l’immagine di Israele venga irrimediabilmente compromessa nell’opinione pubblica internazionale, alimentando fenomeni non solo di odio, ma anche di terrorismo antisemita, che non coinvolgono direttamente arabi o musulmani. Chi ha sparato ai due dipendenti dell’ambasciata israeliana non faceva parte di nessuna di queste due categorie.
(Paolo Rossetti)
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.