Sette sogni (chimere) individua Carlo Cottarelli, economista e scrittore, nel suo ultimo libro per Feltrinelli dedicato ad altrettanti fallimenti avvenuti o da venire nel largo campo dell’economia nazionale e internazionale caratterizzato dalle fittissime interconnessioni che il modificarsi dei rapporti tra i Paesi e i loro blocchi come li abbiamo conosciuti ha forse indebolito, ma non certo eliminato.
Lasciando al lettore il gusto di scoprile, le argomentazioni riportate sull’ascesa e la caduta delle criptovalute, il ritorno dell’inflazione, i rischi per l’eccesso di liberalizzazione nella finanza, la crisi della globalizzazione e i limiti delle tasse piatte, ci limiteremo a osservare due fenomeni in particolare: il mistero della bassa produttività nonostante la tecnologia e i vincoli ambientali per la crescita.
Si tratta di problemi aperti, privi di una soluzione teorica o pratica che possa spiegarli del tutto e con i quali dovremo fare i conti in questi anni e nei prossimi non essendo ininfluente le scelte che faremo e gli atteggiamenti che prenderemo. La tesi dell’autore, in sintesi, è che la spinta digitale stia sollevando la produttività meno del previsto e che la rivoluzione verde vada maneggiata con molta cura.
Dall’avvento delle nuove applicazioni nei settori chiave dell’informazione e della comunicazione ci si aspettava molto di più. Magari un sobbalzo come quelli avvenuti ai tempi della scoperta della macchina a vapore e dell’energia elettrica. Alla vigilia dell’ingresso nell’arena dell’intelligenza artificiale è giusto interrogarsi sul futuro che ci aspetta e sui condizionamenti cui andremo incontro.
La domanda cruciale che attende una risposta è se le innovazioni introdotte non abbiano ancora dispiegato tutto il loro potenziale, e si tratta quindi di una questione che il tempo sanerà, o se i cambiamenti cui abbiamo sottoposto il nostro modo di creare beni ed erogare servizi non abbiano già raggiunto il massimo della propulsione possibile nonostante gli sforzi compiuti per accettarli.
Ancora più spinosa la vicenda relativa al rispetto dell’ambiente come opzione non rinunciabile se vogliamo consegnare un mondo migliore e più agibile a figli e nipoti. Qui l’urgenza è dettata dalle catastrofi che derivano dalle mutazioni di un clima che si fa sempre più caldo con conseguenze difficilmente revocabili sulla qualità e forse anche sulla quantità delle nostre vite.
I tentativi di avviare politiche per la decarbonizzazione sono lodevoli ma non sufficienti. Soprattutto, i colpi della pandemia prima e poi le ricadute sui mercati e le imprese dell’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia hanno rallentato un processo che, pur tra mille difficoltà e diffidenze, sembrava avviarsi verso un cammino condiviso almeno tra le nazioni più avvedute e responsabili.
Si sperava in una maturazione forzata dell’Unione europea verso una maggiore coesione (vedi il debito comune contratto nell’attrezzare l’atto per le future generazioni che ha generato i diversi Piani nazionali di ripresa e resilienza), ma le tentazioni di procedere in ordine sparso sembrano prendere il sopravvento: le preoccupazioni per il breve termine superano le opportunità del lungo.
Forse ci siamo gettati nel mare insidioso delle transizioni, costose e per certi versi dolorose, con uno slancio tanto generoso quanto cieco. I provvedimenti assunti appaiono più frutto della buona volontà che di decisioni meditate. Gli obiettivi sono stati fissati a un livello non compatibile con una reale considerazione delle capacità. Un vorrei, ma non posso che oggi apre nuovi scenari.
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