Palestina e Ucraina sono luoghi di due guerre che non vogliono finire. Il multipolarismo instabile le alimenta. Trump gioca l'ultima carta
Non c’è dubbio. Viviamo in tempi incerti. Gli Stati Uniti nell’ultimo documento sulla sicurezza strategica nazionale tolgono la Russia dalla lista delle minacce, l’Ucraina rifiuta le proposte americane e si appoggia al pugile suonato di Bruxelles, travolta da uno scandalo corruttivo “italian-socialista”. Musk rincara la dose e attacca l’Unione Europea, accusata di essere ormai un continente vecchio, edonista, governato da burocrati intoccabili che vive a sbafo dell’alleato americano.
Putin vola in India e rafforza il vecchio sodalizio con Modi, mentre i russi continuano a bombardare Kiev e Hamas continua a non consegnare le armi. E gli Usa che intanto guardano altrove e muovono le navi da guerra al largo del Venezuela. E poi ci sono le Filippine, la crisi sino-giapponese, il disastro dell’Africa subsahariana (che ci dovrebbe riguardare molto), Boko Haram in Nigeria che nel silenzio delle opinioni pubbliche della cristiana Europa continua il massacro.
Quello che sembra accadere nel mondo sembra troppo, troppe crisi diverse fra loro che attraversano il mondo in tutte le latitudini e longitudini. Troppi attori, troppe potenze ormai globali che agiscono ognuna seguendo una propria rotta, una propria agenda, una propria logica, e sembra senza tener conto delle reazioni dei rivali, se non nemici.
La conclusione è semplice. Il caos regna sovrano. L’ordine mondiale è un ricordo e una speranza di altri tempi. Quando gli Stati Uniti strattonano brutalmente l’alleato più fedele, la stupita Europa, l’Europa Biancaneve, la bella Addormentata, quella che fino a ieri era il pilastro fondamentale dell’impero americano, che cosa si deve pensare? Come minimo che l’ordine liberale mondiale non è mai esistito, che era una favola per gli allocchi che ci hanno creduto.
Adesso ci dobbiamo confrontare senza mediazioni con l’affastellamento confuso delle crisi e delle minacce che avviene mentre siamo dentro una rivoluzione tecnologica impensabile, l’esplosione della IA, destinata a cambiare i fondamenti antropologici e non solo l’economia del mondo.
Tornano alla mente le parole di Dickens: “Era il migliore di tutti i tempi, era il peggiore di tutti i tempi, era il secolo della saggezza, era il secolo della stoltezza, era l’epoca della fede, era l’epoca dell’incredulità, era la stagione della Luce, era la stagione delle Tenebre, era la primavera della speranza, era l’inverno della disperazione”.
A essere scomparsi sono i due pilastri di quello che un tempo era l’ordine mondiale e che hanno assicurato settant’anni di relativa pace tra le potenze – compresa la vera pace sulle terre europee – e allontanato la minaccia di un olocausto nucleare. Con la fine della guerra fredda è finita l’epoca degli Imperi, della divisione del mondo in sfere di influenza tra Stati Uniti e Unione Sovietica e con la globalizzazione e l’entrata della Cina nel WTO è definitivamente crollato l’altro pilastro rappresentato dal mondo di Bretton Woods, con appresso tutta la sua architettura di istituzioni, Banca mondiale, FMI, e via dicendo.

Ma è tramontato anche il sogno, meglio sarebbe dire l’illusione, del dominio mondiale dell’unica superpotenza rimasta. Washington, invece, non è più qui. Il mondo è ormai troppo complicato, sempre più stretto, piccolo, sempre più connesso, senza aeree franche, con una Cina che in trent’anni è diventata una superpotenza.
E il gigante americano, ancora potentissimo, è attraversato da crisi interne strutturali profonde (non che gli altri Paesi, a cominciare da Pechino, stiano meglio, ma questo si vedrà). Gli Stati Uniti devono pensare, come sempre, prima di tutto alla propria sicurezza, che adesso passa molto meno dal vecchio continente.
Se l’ordine di Yalta è tramontato, se un nuovo concerto delle nazioni è di là da venire, rimane sul tappeto una minaccia da incubo. La guerra mondiale. Le crisi, come recita un adagio che si ripete nel mondo degli affari, prima nascono piano piano e poi scoppiano all’improvviso. La storia, se non insegna tutto, però non va dimenticata. Nessun statista dopo la guerra franco-tedesca del 1870 avrebbe scommesso un cent sullo scoppio della Prima guerra mondiale. Il colpo di pistola a Sarajevo fu lo starter per la follia, per “l’inutile strage” che travolse il mondo.
Quello che adesso sembra impossibile, va invece pensato e gestito. A questo serve la politica. Non a migliorare il mondo, ma a impedire che sprofondi nel baratro della distruzione (ecco il katechon di Schmitt).
Davanti a noi ci sono teatri di guerra incancreniti, che producono insicurezza e sono una minaccia continua, brodo di coltura di ogni guaio peggiore e occasione, per altri, da non perdere. Le due crisi più vicine a noi, guerra russo-ucraina e israelo-palestinese, sono lì pronte ad essere usate.
Al di là delle differenze abissali, questi due conflitti hanno qualcosa in comune. Non vogliono finire, sono sulla scena del mondo senza che l’attore più debole, che non ha nessuna possibilità di ribaltare gli eventi, si dichiari sconfitto, si arrenda e così ponga fine allo spargimento di sangue.
I destini delle guerre purtroppo stanno sulle spalle dei perdenti. Chi vince, anche male come nel caso della Russia, ha dalla sua un qualcosa di più dell’avversario. Dispone di risorse superiori. Può essere il tempo, può essere la potenza economica o militare o demografica, ma è comunque più forte. E questo vale sia per Israele che per la Russia.
A niente servono i discorsi sulla pace giusta, sulle ragioni e i torti, sul destino cinico e baro, sulla memoria storica. Purtroppo Israele e la Russia hanno la forza e la determinazione di continuare da soli queste guerre. Guerre che rischiano di sfuggire dall’alveo delle crisi regionali e delle guerre limitate. L’Iran può disporre di armi nucleari, gli Stati Uniti già adesso non riescono a disinnescare la minaccia degli Houthi – non di chissà quale forza militare – nel Golfo Persico. E la Russia si sente minacciata da una velleitaria Europa.
È dalla visione di una soluzione di queste crisi che una politica di sicurezza di una potenza mondiale, se vuole la pace, deve partire. Perché guerra ibrida in un mondo caotico significa uno stato di guerra permanente, sempre sull’orlo del precipizio e sul punto di progredire di livello. È da questo pericolo che stentiamo a percepire e a comprendere, e con questa prospettiva, che dobbiamo leggere l’ultimo documento strategico dell’amministrazione Trump.
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