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Home » Cinema e Tv » Film e Cinema » UNA SCOMODA CIRCOSTANZA/ Il film che mostra una doppia imprevedibilità

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UNA SCOMODA CIRCOSTANZA/ Il film che mostra una doppia imprevedibilità

Emanuele Rauco
Pubblicato 20 Settembre 2025
Una scena del film

Una scena del film

Il film "Una scomoda circostanza" resta curioso anche solo nel percorso cinematografico del regista Darren Aronofsky

È difficile spiegare cosa abbia spinto Darren Aronofsky a realizzare Una scomoda circostanza: al primo sguardo il film sembrerebbe una concessione alimentare agli studios, uno di quei film che si fanno per rimediare a un precedente insuccesso o per convincere le produzioni a realizzare un film successivo molto meno commerciale. 


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Eppure, al di là del fatto che il regista sembrava immune a questo tipo di operazioni, il suo precedente The Whale, che appariva operazione tutt’altro che commerciale – un uomo gravemente obeso, solo in una stanza, a interagire con poche persone e a riflettere sulla sua condizione – era stato un successo arthouse, mentre questa nuova commedia noir, piena d’azione e vitalità è stata una delusione economica.


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Fuori dalle questioni pecuniarie, che dimostrano solo l’imprevedibilità del cinema e dei meccanismi hollywoodiani, il film Una scomoda circostanza resta curioso anche solo nel percorso cinematografico del regista, autore capace di ondeggiare tra gli apici e gli abissi, ma sempre con la voglia precisa di colpire lo spettatore, spesso scioccarlo o perlomeno schiaffeggiarlo, ma che in questa occasione ha deciso di stargli a fianco.

Il film Una scomoda circostanza parte da un romanzo di Charlie Huston (“A tuo rischio e pericolo”), anche sceneggiatore del film, e racconta di Hank (Austin Butler), ex-promessa del baseball ora barista, che viene coinvolto in un giro di droga e criminali loschissimi dal suo vicino di casa Russ (Matt Smith, con incredibile cresta punk), perdendo molto – a partire da un rene -, ma forse trovando la strada per cambiare la sua vita.


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Una scomoda circostanza è ambientato alla fine degli anni ’90 e questo spiega un’aria post-punk, data non solo dai capelli di Smith, ma soprattutto dagli ambienti, dai personaggi, dal tono del racconto che pare sospeso tra la goliardia di Guy Ritchie e l’idiota profondità dei Coen e dalla musica, suonata dagli Idles e composta assieme a Rob Simonsen. Insomma, una sarabanda di azione, violenza ironica e personaggi paradossali che a prima vista sembrano lontani dalla personalità del regista.

Aronofsky però dimostra di essere un regista piuttosto intelligente perché da una parte sta al gioco della sceneggiatura, la asseconda con ironia e un certo vigore, anche quando gli snodi richiedono una forte sospensione dell’incredulità, dall’altra riesce ad apporre il proprio marchio anche in mezzo a balordi ebrei ortodossi o russi (interpretati da attori famosi in vacanza premio, come gli irresistibili Vincent D’Onofrio e Liev Schreiber), ovvero lavorare sulle sensazioni fisiche, sulla trasmissione degli effetti della violenza sul corpo tramite le immagini, filo conduttore dell’intera sua opera.

In questo modo, Aronofsky riesce a non prendersi troppo sul serio – e la mancanza d’ironia è uno dei limiti di un cinema che punta sempre al sublime e non sa cogliere quando sta cadendo nel ridicolo – e al tempo stesso non abdicare alle richieste delle major (produce Columbia, distribuisce Sony), cercando il piacere del pubblico e l’interesse personale.

La fusione è riuscita, tutti sembravano accontentati: il rifiuto del pubblico testimonia, in modo anche corroborante, che nell’era degli algoritmi e del controllo totale, anche il cinema si concede ancora le sue imprevedibilità.

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