Il film "Una scomoda circostanza" resta curioso anche solo nel percorso cinematografico del regista Darren Aronofsky

È difficile spiegare cosa abbia spinto Darren Aronofsky a realizzare Una scomoda circostanza: al primo sguardo il film sembrerebbe una concessione alimentare agli studios, uno di quei film che si fanno per rimediare a un precedente insuccesso o per convincere le produzioni a realizzare un film successivo molto meno commerciale. 



Eppure, al di là del fatto che il regista sembrava immune a questo tipo di operazioni, il suo precedente The Whale, che appariva operazione tutt’altro che commerciale – un uomo gravemente obeso, solo in una stanza, a interagire con poche persone e a riflettere sulla sua condizione – era stato un successo arthouse, mentre questa nuova commedia noir, piena d’azione e vitalità è stata una delusione economica.



Fuori dalle questioni pecuniarie, che dimostrano solo l’imprevedibilità del cinema e dei meccanismi hollywoodiani, il film Una scomoda circostanza resta curioso anche solo nel percorso cinematografico del regista, autore capace di ondeggiare tra gli apici e gli abissi, ma sempre con la voglia precisa di colpire lo spettatore, spesso scioccarlo o perlomeno schiaffeggiarlo, ma che in questa occasione ha deciso di stargli a fianco.

Il film Una scomoda circostanza parte da un romanzo di Charlie Huston (“A tuo rischio e pericolo”), anche sceneggiatore del film, e racconta di Hank (Austin Butler), ex-promessa del baseball ora barista, che viene coinvolto in un giro di droga e criminali loschissimi dal suo vicino di casa Russ (Matt Smith, con incredibile cresta punk), perdendo molto – a partire da un rene -, ma forse trovando la strada per cambiare la sua vita.



Una scomoda circostanza è ambientato alla fine degli anni ’90 e questo spiega un’aria post-punk, data non solo dai capelli di Smith, ma soprattutto dagli ambienti, dai personaggi, dal tono del racconto che pare sospeso tra la goliardia di Guy Ritchie e l’idiota profondità dei Coen e dalla musica, suonata dagli Idles e composta assieme a Rob Simonsen. Insomma, una sarabanda di azione, violenza ironica e personaggi paradossali che a prima vista sembrano lontani dalla personalità del regista.

Aronofsky però dimostra di essere un regista piuttosto intelligente perché da una parte sta al gioco della sceneggiatura, la asseconda con ironia e un certo vigore, anche quando gli snodi richiedono una forte sospensione dell’incredulità, dall’altra riesce ad apporre il proprio marchio anche in mezzo a balordi ebrei ortodossi o russi (interpretati da attori famosi in vacanza premio, come gli irresistibili Vincent D’Onofrio e Liev Schreiber), ovvero lavorare sulle sensazioni fisiche, sulla trasmissione degli effetti della violenza sul corpo tramite le immagini, filo conduttore dell’intera sua opera.

In questo modo, Aronofsky riesce a non prendersi troppo sul serio – e la mancanza d’ironia è uno dei limiti di un cinema che punta sempre al sublime e non sa cogliere quando sta cadendo nel ridicolo – e al tempo stesso non abdicare alle richieste delle major (produce Columbia, distribuisce Sony), cercando il piacere del pubblico e l’interesse personale.

La fusione è riuscita, tutti sembravano accontentati: il rifiuto del pubblico testimonia, in modo anche corroborante, che nell’era degli algoritmi e del controllo totale, anche il cinema si concede ancora le sue imprevedibilità.

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