J’ACCUSE/ Scaglia e il caso Fastweb, un esempio di malagiustizia da “studiare”?

- Sergio Luciano

Silvio Scaglia e Mario Rossetti sono le ultime vittime degli errori giudiziari, che, spiega SERGIO LUCIANO, spesso hanno avuto conseguenze nefaste

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Questo nostro Paese ha un suo destino particolare, per il quale spesso le iniziative giuste vengono prese dalle persone sbagliate, e non vanno in porto a causa dell’inadeguatezza dei propri promotori. È il caso della riforma della giustizia che, fin quando sarà propugnata da un governo guidato da Silvio Berlusconi, rischia di non veder mai la luce, lasciando la magistratura italiana in una posizione di inefficiente strapotere, che si risolve in una serie di gravissimi disservizi, continui arbitrii e complessivo crollo di credibilità.

 

Berlusconi però, in materia, anche se la dice giusta non è credibile: non lo è persino tra alcuni dei suoi stessi grandi elettori. Peccato: perché la malagiustizia è una vera piaga nel cuore del Paese, che ha perso la certezza del diritto sia in sede civile che penale.

Uno dei temi di critica contro i magistrati che Berlusconi, personalmente, pur nel suo feroce quindicennio di polemica con la categoria non aveva ancora toccato, è quello dell’abuso della carcerazione preventiva. C’era stato più che un dibattito un tormentone di dibattito, rigorosamente sterile, tra il ‘92 e il ‘95, negli “anni d’oro” di Tangentopoli, ma nulla era cambiato nell’ordinamento.

Di fatto, i giudizi sommari che, sulla documentazione istruttoria raccolta dai pubblici ministeri per chiedere l’arresto di un imputato o il commissariamento di un’azienda, vengono espressi dal Giudice per le indagini preliminari o, successivamente, dal Tribunale del Riesame, appaiono sempre giudizi psicologicamente e anche tecnicamente subalterni a quelli già espressi dal pm, che quindi di solito si vede accogliere le proprie richieste.

Nel corso di Mani Pulite divenne chiaro a tutti e fu oggetto anche di infinita letteratura pubblicistica il criterio profondamente estorsivo che queste misure cautelari seguivano: “Io ti arresto, tu ti spaventi e collabori, ammettendo le tue colpe e, meglio ancora, chiamando qualcun altro a corredo”.

Ecco: nel caso di Silvio Scaglia, Mario Rossetti e di almeno alcuni altri fra i numerosi indagati dell’inchiesta sulle asserite evasioni dell’Iva con riciclaggio che sarebbero state commesse da Telecom Sparkle e da Fastweb, la letale discrezionalità, la totale autoreferenzialità e l’arrogante aggressività dei pm, nell’assoluta supremazia su Gip e Riesame, sono emerse in tutta la loro chiarezza.

Di fatto, un’inchiesta avviata nel 2007, con un primo giro di interrogatori che non avevano condotto assolutamente a nulla, è stata rianimata dopo tre anni. La tempistica, e la visibilità data agli arresti, ha fatto pensare a tutti che la Procura di Roma cercasse un proprio momento di gloria, di pubblicità, quasi a prescindere dalla concretezza degli addebiti.

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Gravissima impressione, certo non comprovata né comprovabile, eppure fondata sul fatto che i meccanismi e le entità delle colpe commesse non sono mai stati chiari all’opinione pubblica, e che poi di fatto gli imputati eccellenti, primo fra i quali Scaglia, non hanno mai ammesso il benché minimo addebito. A dispetto del “torchio” carcerario.

 

Inoltre, con Scaglia i pm romani si sono trovati di fronte a un osso duro. Psicologicamente molto solido, determinato fino all’inverosimile, Scaglia non s’è spostato di un millimetro dalla linea difensiva semplice e radicale che aveva scelto fin dall’inizio: quella della completa estraneità a ogni addebito.

 

Finalmente, dopo 87 giorni, lo hanno rimesso in libertà, anche se con ambiti strettissimi di azione. Ma attorno al suo caso – e purtroppo già meno attorno a quello di Mario Rossetti, che di Scaglia in eBiscom-Fastweb era stato direttore finanziario senza responsabilità personali sulla parte commerciale, su cui s’è concentrata l’inchiesta – è nato finalmente un polverone. Che potrebbe sortire qualche conseguenze politica e legislativa. Già, perché perfino i mille “signori Rossi” estranei alla strana vicenda, ma ad essa incuriositi hanno constatato che:

 

1) I fatti addebitati a Scaglia sono antecedenti alla sua uscita da Fastweb, quindi dopo l’interrogatorio del 2007, l’imprenditore avrebbe avuto tutto il tempo (e le risorse, anche economiche) per tacitare possibili testimoni, inquinare le prove, cancellarle eccetera;

 

2) Quando gli è stato inviato il mandato di arresto, Scaglia – anziché restare dov’era, in un altro continente – ha preferito spontaneamente presentarsi al pm, rientrando in Italia con un volo privato dall’Oriente: che “pericolo di fuga” legittimava una simile, lineare condotta?

 

3) Quanto alla reiterazione del reato, Scaglia non poteva perpetrarla, nemmeno se avesse voluto, perché all’interno dell’azienda dal 2007 non contava più nulla. E nella nuova impresa che dirige, Babelgum, si poteva eventualmente instaurare controlli preventivi, senza per questo far fuori lui…

 

Mancando tutte e tre le condizioni per l’arresto, allora perché? E che gioco nascondeva questa mossa estrema? Pubblicità, sicuramente: perché quello di Scaglia era l’unico nome “altisonante” in un’istruttoria che per il resto, anche in Telecom, coinvolgeva soltanto delle seconde file; e poi pressioni psicologiche.

 

Ora, le questioni aperte sono due: la prima è quella di metodo, sull’abuso della carcerazione preventiva. Scaglia, amato magari da pochi ma noti e stimato da tanti, ha avuto attorno a sé un movimento d’opinione che ha mosso gente come Umberto Eco o Pierluigi Celli, inducendoli a scrivere la loro testimonianza di stima e la loro incredulità sugli addebiti in un blog vivacissimo lanciato on-line poche settimane dopo l’arresto; e c’è poi stata la saggia iniziativa della moglie, Monica, di scrivere una lettera aperta al presidente della Repubblica, invocandone l’intervento chiarificatore, che di fatto c’è stato.

 

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Solo grazie a questo eccezionalissimo concorso di consenso Scaglia ha rivisto casa sua; e non a caso ha fatto sapere di voler creare, con i suoi tanti soldi, una Fondazione per aitare chi si trovasse nelle sue stesse condizioni senza avere le risorse per difendersi da solo.

 

C’è poi una questione di merito, ed è l’incosistenza delle accuse: ma su questo è bene far parlare i tempi, pur biblici, con cui la magistratura giudicante si pronuncerà.

 

Il punto nodale resta però un altro: ed è l’irresponsabilità dei magistrati, a fronte dei devastanti danni esistenziali che generano quando sbagliano. Un referendum sulla responsabilità civile dei giudici, che vent’anni fa prescrisse al legislatore di stabilire appunto l’obbligo dei magistrati di pagare i danni dei loro errori, è rimasto lettera morta.

 

Mentre è regola costante che, ad esempio, un medico ospedaliero che sbagli, debba pagare i danni alla sua vittima. O un autista dell’Atm che investa il pedone paghi di tasca sua e, eventualmente, rimettendoci il posto. Ma quel che è peggio, neanche la carriera dei giudici risente dei loro errori: il fatto che un pubblico ministero, che richieda il rinvio a giudizio di 100 inquisiti, veda accogliere dai Gip il 100% o il 10% delle sue richieste, non influisce sulla sua carriera; il fatto che i rinviati a giudizio vengano condannati al 100% o al 10% non influisce sulla sua carriera; insomma, che lavorino bene o male, i giudici vanno avanti lo stesso.

 

Nel ’93, l’allora presidente dell’Eni Gabriele Cagliari venne arrestato per tangenti. Per lui fu un gravissimo trauma. Si aggrappò con la forza della disperazione alla speranza di essere trasferito agli arresti domiciliari. Era la fine di luglio, il pm Fabio De Pasquale aveva in mano la richiesta degli avvocati di Cagliari, primo fra tutti Vittorio D’Ajello. Racconta D’Ajello che De Pasquale promise di valutare la richiesta di scarcerazione entro un determinato giorno; e che per di più – ma questa era un’interpretazione dell’avvocato – che si era mostrato favorevole ad accoglierla.

 

Alla vigilia della data indicata, a D’Ajello che cercò il giudice risposero in cancelleria che se n’era andato in vacanza e che sarebbe tornato a fine agosto. L’avvocato non potette che riferire la circostanza al detenuto. Il quale all’indomani si soffocò nelle docce con un sacchetto di cellophan stretto attorno alla testa. E morì. Fabio De Pasquale è ancora pubblico ministero a Milano, e ha sostenuto l’accusa nel processo a David Mills e a Silvio Berlusconi.





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