SELFIE DAVANTI A DONNA INVESTITA DAL TRENO/ Senza la pietà, siamo solo pendolari del Nulla

- Roberto Persico

Un treno investe una donna, i carabinieri devono intervenire per calmare i passeggeri. Altrove un passante si fa un selfie davanti a una persona investita. ROBERTO PERSICO

incidente_soccorso_polizia_elicottero_lapresse_2018 Eliambulanza, i soccorsi - LaPresse

Una premessa. Quest’anno sono anch’io un pendolare (e lo sono stato, di tempo in tempo, in anni passati). So che cosa vuol dire arrivare sul binario e leggere che il treno è stato soppresso, salire sul convoglio successivo stipato all’inverosimile, vedere i minuti scorrere in soste incomprensibili, dover avvisare al lavoro che si farà tardi, tornare a casa sfiniti a ore impossibili. Recentemente, Il Foglio ha dato conto delle migliaia di treni soppressi da Trenord ogni mese. Capisco bene che il trattamento che i passeggeri dei treni suburbani ricevono è spesso inumano. Ma, per favore, resistiamo. Resistiamo, almeno, alla disumanizzazione. Conserviamo il primordiale moto umano della pietà, che davanti al dolore è capace di fermarsi, è capace di un momento di silenzio, di rispetto.

Perché dico questo? Perché nei giorni scorsi un paio di notizie dai binari segnalano che davvero corriamo il rischio di dover dire che “pietà l’è morta”, e senza le nobili ragioni del canto partigiano. Prima notizia. Sabato sera, il regionale in partenza da Melegnano diretto a Piacenza investe una donna. Il treno si ferma, per sgomberare la linea ha una sola soluzione, tornare indietro fino a Milano Rogoredo. Qui, per placare i passeggeri infuriati è necessario l’intervento dei carabinieri. Seconda notizia. Qualche giorno fa, alla stazione di Piacenza un treno investe una donna. E mentre questa viene assistita, un passante si fa un selfie, fatto in modo che si vedano bene, dietro di sé, la donna e i soccorritori.

Uno dei primi segnali della civiltà, dell’uscita degli umani dalla barbarie primitiva, è la pietà per i morti. La capacità, davanti al dolore, di fermarsi, di fare un momento di silenzio, di mettere da parte per un istante le proprie — giuste, giustissime — urgenze e di com-patire, soffrire insieme, sentire come propria la sofferenza dell’altro. Fermarsi un attimo a considerare che l’incidente è successo a un altro, sì, “but for fortune”, come cantava Joan Baez: è capitato a un altro, sì, ma per caso. Poteva capitare a me. Arriverò a casa un’ora più tardi, sì. Ma io almeno ci arrivo. La pietà per i morti, per il dolore, è l’altra faccia della gratitudine perché ci sono, e non è merito mio.







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