SORRENTINO/ La brutta “grande bellezza” che piace ai salotti che contano

- Gianfranco Lauretano

"La grande bellezza" del regista Paolo Sorrentino ha vinto il Golden Globe. Cioè ha tutta l'attenzione del mondo che conta (gli Usa). Ma "quelli" siamo davvero noi? GIANFRANCO LAURETANO

grandebellezza_servilloR439 Toni Servillo ne "La grande bellezza" di P. Sorrentino (Immagine d'archivio)

Io non so se valga la pena di essere fieri del premio cinematografico Golden Globe andato al film La grande bellezza del regista Paolo Sorrentino, che delinea la figura di Jep Gambardella, uno scrittore meridionale il quale dopo il successo di un solo romanzo è diventato da sessantenne giornalista culturale uno dei re della mondanità cafona di Roma, tra attrici decadute, scrittori improbabili di romanzi e copioni, poeti tristi e incapaci, attori ed editori di un mondo di ballerine e nani, feste con cocaina, sesso senza senso né gusto, nottate demenziali. 

La storia non c’è, e non per colpa della scarsa sceneggiatura, come ha scritto qualcuno: si tratta di un film che intende descrivere un mondo in sfacelo, rappresentare una società non solo in crisi, ma già marcita del tutto. Ora, se a guardare il film fossero gli italiani, potrebbero riconoscere nella rappresentazione che viene data la società intellettuale e magari politica dei salotti romani, dell’intellighenzia di sinistra (il partito comunista è un fantasma che si aggira nel film), della borghesia sedicente artista di una città e della sua classe dirigente. Ma il film non è fatto per gli italiani e, visto all’estero, diventa immediatamente il ritratto dell’Italia tutta, e di questo non può andar fiero neppure chi non possiede un senso appassionato della dignità nazionale.

Proprio qui sta il punto: l’intenzione di Sorrentino era di fare un film non per gli italiani, ma per gli altri, soprattutto per gli Stati Uniti. E, dati i risultati, c’è riuscito. La grande bellezza rappresenta l’idea dell’Italia, un po’ degenerata, molto ignorante, ma ancora bella, che dimora da sempre nell’immaginario soprattutto degli americani. La parte giudicata migliore di un film che non è certo un capolavoro, cioè la fotografia, strizza proprio l’occhio a questo: le inquadrature romane, in realtà molto prevedibili e a volte veri e propri luoghi comuni, danno l’idea di una bellezza tutta archeologica, proveniente dal passato, in mezzo alla quale brancola la bruttezza antropologica degli italiani di oggi, un popolo, per un Sorrentino tutto teso ad omaggiare ciò che gli americani probabilmente pensano di noi, con una grande storia e un miserevole presente. Naturalmente la Chiesa cattolica, di cui la città è la sede, ci fa una pessima figura: un cardinale immanicato in Vaticano non sa far altro che parlare di cucina e una vecchia mostruosa, “la santa” (caricatura-sberleffo di Madre Teresa di Calcutta?), sostiene la parte del carisma pauperistico del cristianesimo di oggi, lasciando un’impressione di ribrezzo. Peggio di così…

Ma l’Italia non merita affatto un trattamento del genere; per questo, se possiamo vantarci di un riconoscimento alla nostra cinematografia, c’è poco da andar fieri di chi l’ha vinto. Sorrentino ha raggiunto il suo scopo: essere preso in considerazione dal gotha mondiale del cinema, ma ha affondato ancor di più l’immagine del nostro paese in un cliché falso e ingiusto che, da adesso, sarà più difficile ribaltare. Non siamo per nulla quello che il film racconta: se lo siano i salotti romani che Sorrentino frequenta (e da adesso anche quelli americani) non so.





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