A 50 ANNI DAL ’68/ “Da Servire il Popolo a don Giussani, le mie illusioni e la sua vittoria”

- Aldo Brandirali

I movimenti giovanili, l'esperienza in fabbrica, la contestazione, Servire il popolo, il decadimento degli ideali, l'incontro con don Giussani. ALDO BRANDIRALI racconta il suo Sessantotto

68_sessantotto_rivoluzione_giovani_lapresse_1968 LaPresse

Il periodo che convenzionalmente chiamiamo Sessantotto è un periodo storico, lo si potrebbe considerare un’epoca. Come tale è preceduta da alcuni caratteri, che elenco brevemente.

1. L’uscita dalla ricostruzione del dopoguerra e il consumismo. La lavatrice, il televisore, la “Cinquecento” diventano beni di massa. Il dopoguerra ha impegnato tutti nella ricostruzione, le grandi fatiche hanno prodotto il tempo del benessere, si affacciano nuove possibilità di possesso e di consumo. Il liberismo capitalistico realizza nelle società democratiche il consolidamento di un modello di vita moderno, anche se a discapito dei popoli meno sviluppati, utilizzati per trasferire ricchezze nei Paesi più forti.

2. In politica la Democrazia cristiana apre alle alleanze. In Italia nasce il centro-sinistra, il governo Fanfani ha al suo interno i socialisti. I cattolici vengono investiti dal problema di allearsi con aree laiche. Prende corpo una sinistra cattolica, nella Dc nascono le correnti, al tempo stesso la cosiddetta centralità della politica riduce la Chiesa a essere relegata nel privato.

3. Segue un decennio che va dal 1967 al 1977, cioè dalla nascita di correnti di dissenso nei partiti fondati sulle grandi ideologie del secolo, al convegno in piazza a Bologna delle autonomie operaie nel 1977, che apre invece il periodo più estremizzato dello scontro ideologico. Si diffonde il terrorismo e i movimenti sono segnati da un atteggiamento di compromesso verso il terrorismo (i famosi “compagni che sbagliano”).

La crisi dei sistemi ideologici. A cinquant’anni di distanza i fatti storici si spogliano delle opinioni di critica o di sostegno delle idee di coloro che ne sono stati interpreti e diviene più facile guardare ciò che è realmente accaduto. Questo è particolarmente importante per il ’68, che è interamente segnato da movimenti di opinione in un tempo in cui le ideologie del secolo sono ancora presenti, ma si sgretolano in diverse varianti ideologiche, come frammenti di visioni che non sono più egemoni.

Quel tempo ha avuto inizio con la nascita di molte riviste, dai Quaderni Piacentini ai Quaderni Rossi, in un clima di apertura a tante varianti culturali fondamentalmente incapaci di riconoscere quello che stava accadendo. La mole cartacea di riflessioni prodotte appare interessante, ma il movimento culturale non aveva in realtà un luogo formale di riferimento; i grandi sistemi di idee erano entrati in crisi e ciascuno ne ipotizzava una qualche variabile, dall’operaismo allo spontaneismo, all’esistenzialismo eccetera.

Io e l’ideologia. Io sono stato un interprete influente di quel periodo storico. Se oggi avessi ancora le opinioni che avevo allora, ora potrei solo raccontare illusioni e fallimenti, e questo non sarebbe interessante. In cinquant’anni ho camminato cambiando, riconoscendo i fallimenti e cercando di spiegare a me stesso le mie ragioni.

Essendomi formato nella tradizione comunista, ero convinto che fosse necessario il ritorno al nocciolo vero della teoria marxista per rilanciare la lotta e cambiare il mondo secondo le promesse ideali di quella ideologia: superamento della divisione in classi della società, conquista dell’eguaglianza fra gli uomini, estinzione dello Stato quale strumento del potere di una classe sulle altre, conquista della giustizia come regola autogenerata dalla vita comunitaria.

Ora risulta evidente che quella teoria ha dovuto realizzarsi scomponendo le sue astrazioni: lo Stato comunista si è dimostrato più autoritario dello Stato borghese, la teoria marxista ha negato se stessa nel diventare esperienza storica. Il secolo delle ideologie ha vissuto le conseguenze dell’astrattezza teorica. Questo è accaduto anche per la teoria nazi-fascista, fondata sulla superiorità degli individui di forte identità che generano la ragione morale della loro dittatura sul resto degli uomini, il prodotto della guerra, dello sterminio degli ebrei e il riprodursi del razzismo. Infine si ridusse a giustificare la spaccatura fra Primo mondo e Terzo mondo.

Le condizioni culturali introduttive al Sessantotto. In questo contesto si colloca la drammatica realtà dei movimenti giovanili che hanno contrassegnato il ’68. Le ideologie di allora brandivano il primato della teoria sulla realtà. I movimenti erano motivati da una tensione ideale, sorgevano dalla crisi del sistema dei partiti politici tradizionali, ponevano domande nuove sul fare politica, ma non avevano la cultura e il linguaggio adeguati a esprimere quegli ideali. Ciò che quei movimenti gridavano nelle strade, scrivevano sui volantini o sui loro piccoli giornali non sapeva veramente esprimere le motivazioni originali di quei giovani.

Eppure questi movimenti ci sono stati, hanno avuto momenti di grande influenza nella vita pubblica, e segnano la storia personale di tanti. E si possono capire non per quello che teorizzavano, ma per quello per cui si impegnavano nella vita. Dunque si deve prendere in considerazione una dimensione soggettiva che si chiama desiderio, produttore di domande e di passioni, esigenze reali del momento storico e della generazione giovanile di quel tempo.

Inizia l’epoca del Sessantotto. Sin dall’inizio degli anni 60 vi sono i segnali di bisogni più umani rispetto all’arricchimento e ai miti del benessere e del consumismo. Domande sul significato della propria vita sorgevano come accade sempre in tutte le generazioni. Domande di senso che non avevano risposta nella moralità dominante, con uno Stato concepito come luogo dell’etica consolidata e una Chiesa diventata concorrente, con la sua etica religiosa critica verso l’etica laicista. Le fonti di riferimento della moralità negli anni 60 non avevano la capacità di rispondere alle domande esistenziali dei giovani. Nella Chiesa nascono movimenti, e in particolare don Luigi Giussani afferma la necessità di ripartire da Cristo, presente, incontrabile, che converte a uno sguardo vero sulla vita. Intanto però nell’opinione diffusa di quel tempo il ’68 accade come drammatica assenza di risposte alle domande esistenziali.

Andare controtendenza, rompere con usi e costumi dell’epoca, sperimentare forme di vita diversa: questa diventa la soggettività giovanile di quegli anni. I capelli lunghi, il vestiario essenziale, il conflitto con la propria famiglia, la contestazione culturale degli insegnanti nelle università, il bisogno di umanizzare i metodi di lavoro abbruttiti dai sistemi di parcellizzazione delle fasi di lavorazione imposte con frenesia nelle fabbriche. Sono queste le fonti di una tensione ideale che diventa fortissima e diffusa e che non può trovare alcun partito capace di contenerle. Questa tensione diventa cultura diversa, all’inizio negli Usa, dove nelle università americane nascono i figli dei fiori, gli hippies, le comuni di vita assieme. Si ritrova nelle manifestazioni contro la guerra in Vietnam, infine sfocia nel Maggio francese, che nel ’68 contrassegnerà la larga diffusione di movimenti organizzati fuori dai partiti, e che verranno chiamati extra-parlamentari.

Il primo fatto da prendere in considerazione è l’insorgere di un conflitto generazionale: i figli non avevano risposte adeguate da parte degli adulti alle proprie domande di senso. Mancava l’incontro con una corrispondenza al proprio desiderio di significato.

Una parentesi personale. Da giovanissimo ebbi delle belle amicizie, improntate alla gratitudine, perché essendo povero trovavo sostegno in cari amici: Alcide che mi difendeva negli scontri fra le bande del paese; Primo che da postino riceveva mance e le veniva a spendere con me; Silvano che per tre anni mi ha portato a scuola sulla canna della sua bicicletta. Questo aveva generato in me un senso di appartenenza al mio popolo e motivava il mio desiderio di diventare utile alla mia gente.

Arrivai in fabbrica, da Sesto Calende a Milano, prima pendolare in treno e poi residente a Milano. L’esperienza di lavoro diventò significativa alla Europhon, fabbrica di apparecchi radio con 800 operai. Qui cominciò il mio impegno sindacale, nelle prime riprese delle lotte di fabbrica all’inizio degli anni 60. Feci partire gli scioperi per i diritti sindacali, misi in piedi la commissione interna che diventò poi consiglio di fabbrica, assunsi compiti direttivi nel lavoro e mi posi il problema delle condizioni umane nel lavoro. La produzione a catena era un metodo sorto dalle esperienze americane, il cosiddetto taylorismo: operazioni in tempi brevi, ma ripetute per tutto il tempo del lavoro. Vedevo le ragazze della catena che dirigevo molto condizionate anche fisicamente, mi colpiva soprattutto, all’uscita dal lavoro, vedere che muovevano un braccio e non l’altro nel camminare. Posi la questione a tutti gli incontri sindacali, ma il problema dell’umanizzazione del lavoro non era preso in considerazione. Questo mi fece capire che non mi bastava la lotta sindacale.

Cominciai a sentire il bisogno di fare una politica idealmente capace di cambiare il mondo e più rispondente alla tensione delle nostre esistenze. Lasciai la fabbrica, feci il sindacalista per due anni, poi venni eletto nella segreteria nazionale della Fgci, l’organizzazione giovanile del Pci. Segretario venne eletto Achille Occhetto. Io maturai qui le mie obiezioni al Pci: gli ideali comunisti rimanevano esterni alla vita reale, perché scopo della lotta politica era solo quello di partecipare alla classe dirigente del Paese.

L’inizio del mio Sessantotto. Io avevo bisogno di vivere l’ideale e cominciai a promuovere raggruppamenti di giovani con un desiderio simile. Uscendo dal Pci, diedi vita al Gruppo Falcemartello. Nel ’67, e poi nell’ottobre del ’68, promossi l’Unione dei comunisti italiani marxisti-leninisti, in dissenso dal comunismo sovietico e con lo sguardo rivolto alla Rivoluzione culturale cinese. Assunsi integralmente il linguaggio ideologico per lottare contro i revisionisti del marxismo e contro la nuova borghesia rossa. Consideravo il potere nell’Urss molto burocratico e luogo dei privilegi di casta.

Ma sotto l’ideologia, ecco la dimensione drammatica delle domande che non potevano avere risposta: come tenere unito l’io fra la vita quotidiana e l’ideale? Come essere al servizio del popolo? Come cambiare noi stessi per cambiare il mondo? Nel congresso costitutivo dell’Unione, svoltosi a Roma nella primavera del ’69, incentrai la visione sulla parola “altruismo”. E spingendo ad andare fra operai e contadini, diventammo più interessati al vissuto che al fare politica, rafforzando così la nostra propensione a vivere il nostro ideale più che a fare politica. In questo si comprende anche il nostro carattere extra-parlamentare.

Avemmo un grande afflusso di aderenti e ci trovammo nella necessità di resistere alla tentazione di diventare innovatori esistenziali, facendo una specie di sinistra borghese. Per questo i nostri movimenti interni di formazione portavano all’espulsione di molti che non proletarizzavano la loro mentalità.

Dall’ottobre del ’68 al dicembre del ’75 eravamo diventati quelli di “Servire il popolo” (il titolo del nostro settimanale). Ma questo sviluppo si concluse con il decadimento delle domande iniziali, e con l’insorgere di un astratto problema di concretezza politica, che divenne apertura alle idee di azioni violente per imporre le nostre idee. Io mi rifiutai di entrare in questa logica e provocai lo scioglimento del movimento. Si capiva che non avevamo trovato risposte al nostro desiderio, e per questo, elencando i nostri errori più evidenti dovetti ammettere: “quello che diciamo è sbagliato, ma non so spiegarvi perché, dunque ognuno ragioni con la propria testa”. Uno scioglimento che riguardava 15mila aderenti e che scatenò mille rancori nei miei confronti.

La mia uscita. Dal 1976 all’82 lavorai criticamente sull’ideologia e cercai di capire la storia umana, iniziando dai tratti costitutivi, antropologici, del cammino umano. Nell’ottobre del 1982 incontrai don Giussani. Mi colpì molto il suo riconoscimento di quello che ero, non di quello che dicevo.

Questa nuova attrattiva crebbe dentro di me, e nel maggio del 1985 in un incontro pubblico con don Giussani dissi: “ma tu dov’eri, io ti ho sempre cercato”; volevo dire che avevo trovato in lui finalmente un punto di riferimento per capire le mie domande. Giussani stesso rispose che anche lui mi aveva cercato, ovvero che sapeva di quel fermento giovanile, delle domande che lo caratterizzavano, e voleva raggiungerci oltre le ideologie. Quando valorizzò la mia tensione ideale, e l’entusiasmo con cui io e miei compagni ci impegnavamo, compresi che avevo trovato una corrispondenza sorprendente a quello che mi aveva mosso sin da ragazzo.

Quello che accadde nel Sessantotto. I movimenti di contestazione nelle università diventano molto diffusi nel ’68 e nel ’69. Nella critica culturale alle baronie universitarie ci sono tutti i tratti di una crisi dell’autoritarismo e della formazione della classe dirigente. Si produce una critica alla tradizione, al potere, e si formano tendenze libertarie protese alla modernizzazione della borghesia e all’affermazione di diritti di massa, fino al 6 politico e alla perdita di vera applicazione nello studio. Nelle manifestazioni studentesche si diffondono gli scontri con la polizia, esagerati nelle pretese di contestare tutto. Pier Paolo Pasolini colse bene la critica di questa pretesa rivoluzionaria, che finiva con l’aggredire i poliziotti che erano la parte peggio retribuita del Paese.  Nell’Università Cattolica di Milano si verifica addirittura l’espulsione di dirigenti della contestazione, come Capanna, Pero e Spada.

Ma ecco che i movimenti si sviluppano anche a destra, si formano violente contrapposizioni ideologiche e forme di estremismo diffuso che vengono utilizzate anche dai servizi segreti, secondo la logica dell’isolare i movimenti facendo crescere il tipo di violenza.

Arriviamo così all’attentato di Piazza Fontana a Milano, un fatto che sconvolge tutto il modo di essere dei movimenti giovanili. L’accusa e la morte dell’anarchico Pinelli daranno vita a un’evoluzione dell’estremismo che arriva sino all’uccisione del commissario Luigi Calabresi. La strategia della tensione cresce: il 28 maggio 1974 c’è l’attentato in Piazza della Loggia a Brescia. Si diffondono i movimenti clandestini, dalle Brigate rosse a Prima linea, e a destra Ordine nuovo. Si diffonde la pratica dell’assassinio politico, con centinaia di morti e feriti. Il terrorismo toglie il diritto di parola alla contestazione.

Il testo presentato è la traccia dell’intervento che l’autore terrà questa sera, a Milano, al Centro Culturale di Milano (Sala di via Sant’Antonio 5, ore 20.45), ospite dell’incontro “1968. Ieri e oggi di un desiderio di cambiamento. Da Parigi a Praga, passando per Milano”. Intervengono Pier Alberto Bertazzi, Aldo Brandirali e Luciano Pero. Coordina Giancarlo Cesana.





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