LA STORIA/ 2. Ruanda, la riconciliazione di Jean

- La Redazione

Quest'anno ricorre il XX anniversario del genocidio in Ruanda. In questi anni AVSI è presente nel Paese, che ancora oggi fa i conti con le conseguenze del conflitto. la testimonianza di Jean

africa_campo campo_Africa (infophoto)

Era il 6 aprile del 1994, quando l’aereo di Juvenal Habyarimana, allora presidente del Ruanda fu abbattuto da alcuni estremisti del suo stesso partito a causa delle troppe concessioni fatte ai tanto odiati tutsi del Fronte Patriottico Ruandese nei colloqui di pace del giorno prima in Tanzania.

Da questo episodio ebbe inizio quello che è passato alla storia come uno dei più terribili esempi di genocidio che l’uomo ricordi, con oltre un milione di persone massacrate.

In quegli stessi giorni AVSI fu tra le prime ong a varcare il confine con l’Uganda per sostenere le vittime del conflitto con interventi di emergenza.

Per AVSI, l’anniversario del genocidio esprime un rinnovato impegno nel sostenere la speranza della gente, nelle situazioni più difficili e drammatiche.

Ecco il racconto dei terribili giorni del genocidio in Ruanda da chi li ha vissuti da perseguitato e ora, dopo vent’anni, lotta per un paese finalmente unito.

Jean Bosco Gatabazi è ruandese, è sposato e ha cinque figli. Nel 1994, all’epoca del genocidio che ha cambiato per sempre il Ruanda, aveva 19 anni, ha perso il padre ed è stato costretto a nascondersi nei boschi per giorni. Oggi, ha un esercizio commerciale che ha creato grazie al supporto di AVSI, fa fatica a parlare dei terribili giorni dei massacri, ma sogna di vivere in un paese finalmente unito e riconciliato.

Durante la guerra ha perso il padre, ucciso a causa della sua etnia tutsi. E’ rimasto da solo con la madre e i fratelli, senza più nulla. Il Ruanda era in ginocchio, con i sopravvissuti che faticavano a rimediare qualsiasi cosa, come cibo o i mezzi necessari a condurre una vita dignitosa.

Il genocidio è qualcosa che va oltre l’umana comprensione – racconta Jean – Chi ha vissuto quel periodo lo ricorda bene, è stata una ferita enorme per tutto il Ruanda. Ricordo che, al termine delle stragi, ho pensato che la mia vita si sarebbe fermata. Disoccupati, senza una prospettiva, abbiamo cominciato a chiederci cosa sarebbe venuto dopo, ma facevamo fatica a immaginarci un futuro. Ed era forte la paura di non riuscire più a ricominciare, a tornare alla vita che facevamo una volta”.

Al tempo del genocidio, Jean era molto giovane, appena maggiorenne. Ha ricordi confusi di quanto accaduto, della sua fuga durante un attacco ai tutsi del suo paese, Musambira, e dei giorni vissuti nei boschi, nascosto dai suoi persecutori. 

Per me, è stato come guardare la pioggia cadere, ma senza sapere come e perché. Crescendo, parlando con i più anziani, ho cominciato a capire che il genocidio non è stato un periodo di qualche mese, ma che quegli eventi sono stati solo l’apice di una persecuzione durata anni, cominciata molto tempo prima del 1994. Il Paese era diviso. Una parte della popolazione ha convinto il resto che i tutsi fossero pericolosi e che non ci sarebbe stato nulla di male a sterminarli. La povertà ha contribuito, perché rubare a un Tutsi era considerato legittimo e molte famiglie hanno migliorato la loro posizione sociale grazie alle confische delle proprietà tutsi”.

Oggi, il Ruanda, sta tentando con fatica di superare le divisioni, nonostante le ferite della guerra siano ancora aperte.

La gente ha capito che il genocidio è stato solo uno strumento in mano ai leader di allora, che miravano a mantenere il potere e pensavano di avere più diritto di altri a stare in questo paese. Gli atteggiamenti sono cambiati, perché le conseguenze del genocidio le hanno subite tutti quanti. A partire dai sopravvissuti, ognuno dei quali ha perso una persona cara, è dovuto fuggire e lasciare tutto quello che aveva costruito in una vita. In vent’anni, i diversi gruppi etnici hanno capito che possono vivere serenamente insieme e condividere le ricchezze del Ruanda. Non è stato semplice. All’inizio i tutsi vivevano da soli, uscivano poco e solo insieme ad altri tutsi. Poi sono nate alcune cooperative di lavoro e anche grazie a queste esperienze abbiamo avuto la forza, insieme, di andare da loro, di vederci. Ora, invece, si sente aria di vera riconciliazione”.

Il percorso verso un futuro di pace e riconciliazione è ancora lungo per i ruandesi. Jean ha scelto di costruirsi una vita normale grazie al lavoro, aprendo un negozio a Kamonyi.

Per quanto mi riguarda, ho scelto di vivere in pace e con fiducia negli altri e nel futuro. Dopo alcuni viaggi di studio, ho aperto un negozio in Ruanda e questo mi ha aiutato molto. La natura stessa del mio lavoro mi ha portato a incontrare persone di tutti i tipi e a trattare con loro per motivi professionali. Va da sé che la scelta dei miei clienti e dei miei fornitori non poteva essere una questione di etnia, ma di convenienza professionale. Così ho imparato a valutare le persone a seconda di quel che fanno e non di ciò che sonoAi sopravvissuti, a chi come me ha sofferto quei giorni, vorrei dire di impegnarsi nella ricostruzione di questo Paese. Di accettare quel che è stato e di non sprofondare nella disperazione causata da ciò che hanno visto, ma di lottare per ricostruire un futuro insieme”.

Nel 2003, c’è stato l’incontro con AVSI, che ha cambiato di nuovo, questa volta in positivo, la sua vita.

Ho conosciuto AVSI perché aiutavano mia nipote Delphine, orfana dall’età di 8 anni. Lavoravano al fianco dei più vulnerabili, in particolare con gli affetti da HIV. AVSI ha aiutato anche me, con il cibo e il sostegno materiale, ma anche e soprattutto a ricostruire la fiducia in me stesso e nella vita. Grazie ad AVSI ho potuto costruirmi la mia casa in città e lasciare l’isolamento in campagna. E’ potuto accadere grazie ai suggerimenti dei formatori, grazie al contatto umano e allo scambio con gli altri. E ‘ come se avessi aperto gli occhi e adesso riesco a vivere e mantenere la mia famiglia.

“Anche il supporto più materiale è stato importante. AVSI ci ha insegnato a pescare e a farlo con maggiore consapevolezza e autonomia, ci ha spinto a organizzare una nostra cooperativa (COVAM), che grazie a questo supporto esiste ancora a distanza di anni. Inoltre, le associazioni e le cooperative sono stati un mezzo per conoscerci meglio e superare insieme paure e diffidenze. Un altra cosa molto utile sono stati i viaggi di studio. Abbiamo visto quello che stava accadendo altrove, in agricoltura, zootecnia , unità di elaborazione, con l’ obiettivo di uscire dalla povertà a causa della guerra e del genocidio. Inoltre, l’esperienza in cooperative ci ha permesso di conoscerci meglio e di fidarci a vicenda”.





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