THE DOORS/ Ray Manzarek, Robbie Krieger e lo “spettro” di Jim Morrison…

- Paolo Vites

Ray Manzarek e Robbie Krieger dei Doors si sono esibiti a Milano in un concerto che ha "evocato" Jim Morrison. La recensione live a cura di PAOLO VITES

jimmorrison_R439 Jim Morrison

“Please welcome from Los Angeles California, The Doors!”. Un saluto, un’introduzione, un grido immortalato in un celebre disco dal vivo dei Doors che ha fatto epoca. Una dichiarazione di appartenenza per una band che non poteva che uscire dal visionario panorama della “city of lights”, la città delle luci effimere, delle star, del cinema, del rock, del “Vivi veloce, muori giovane e lascia un bel cadavere”. Risentirlo oggi, a 41 anni dalla morte di Jim Morrison, quel saluto fa sempre effetto, anche se adesso è diventato “”Please welcome from Los Angeles California, Ray Manzarek and Robbie Krieger of The Doors!”. Perché il terzo membro della band, il batterista John Densmore, ha negato l’utilizzo del nome del gruppo decidendo di non prendere parte a queste reunion che vedono invece il tastierista e il chitarrista originari del gruppo, coadiuvati da ottimi musicisti quali Ty Dennis  alla batteria e Phil Chen al basso.

E poi lui, naturalmente, il fantasma, il sosia, il clone di Jim Morrison. Per questo tour che ha toccato anche Milano e Roma, si tratta di Dave Brock, somiglianza impressionante nel volto, nelle movenze e nella voce con il Jim Morrison originale, cantate di una cover band dei Doors.
Da quando Manzarek e Krieger hanno deciso una decina di anni fa di tornare a esibirsi, hanno cambiato numerosi cantanti: c’è chi odia questa scelta (impossibile ovviamente sostituire uno dei frontman più carismatici e originali della storia del rock) e chi invece pur di vivere un paio d’ore di emozioni e nostalgia accetta il fatto compiuto. Visto sul palco del festival City Sound all’Ippodromo di Milano (a proposito: la decisione di spostare i concerti all’Ippodromo dall’Arena si è rivelata vincente; splendida location, comoda da raggiungere e suoni finalmente non mortificati dai residenti del centro milanese che obbligavano a tenerli a un volume non adeguato alla musica rock), bisogna dire che il concerto offerto è notevole, nonostante il pensiero vada continuamente a quella piccola tomba nascosta da decine di altre nel cimitero parigino di Père Lachais, dove giace dal luglio 1971 l’unico, vero, insostituibile cantante dei Doors.

Quando a inizio serata le note possenti e inquietanti del Carmina Burana riempiono l’aria attraverso luci rosso sangue ed esplosioni ritmate di luci bianche, si ha davvero l’impressione che da quei giochi di luce possa emergere il cadavere resuscitato di Jim Morrison. Il Carmina Burana è come una invocazione al regno dei morti, e la leggenda di Mr Mojo Risin’, l’idolo voodoo che risorge dai morti inventata dallo stesso Morrison, per pochi minuti sembra plausibile. Poi il saluto di introduzione e come nel leggendario disco dal vivo di cui dicevamo prima, partono le note di una incandescente e trascinante Roadhouse Blues, perfettamente guidata oggi come quarant’anni fa dalla chitarra di Robbie Krieger che svisa blues ad alto potenziale con classe e maestria.

Comincia il sabba, il pubblico gradisce senza pensare che sul palco non c’è il Re Lucertola, comincia la nostalgia, ma questi Doors che non sono proprio i Doors, per qualche motivo misterioso riescono a rievocare tutta quella forza, quella violenza anche, che sapevano evocare quattro decadi fa.
C’è infatti nella musica di questa band, allora come oggi seppur in forma ridotta, una carica di trasgressione che va al di là degli slogan usa e getta di tanti loro colleghi, ma diventa una forza fisica. Sentire questa violenza riemergere ancora oggi, può solo dare la misura di che forza autenticamente rivoluzionaria fossero i Doors di quaranta e più anni fa, tanto da meritarsi i poliziotti sul palco e anche gli arresti del loro leader.

La prima scarica di brani è qualcosa che manda direttamente a rivivere quelle “strane scene dentro alla miniera dell’oro” evocate da Jim Morrison: Roadhouse Blues, Break On Through (to the Other Side), People Are Strange e When the Music’s Over. Basterebbero questi quattro brani, eseguiti in modo straordinariamente energico e incalzante, per dare il senso della serata. Break on Through: spaccare i limiti e passare oltre. E’ quello che aveva cercato di fare Jim Morrison, spingendo ai limiti massimi la propria natura umana, con il solo risultato di finire morto dentro una vasca da bagno a soli 27 anni. E’ quello che si erano proposti i Doors sin da quando si erano dati quel nome che evocava le porte della percezione di William Blake.

La sfida che Morrison e i Doors si erano posti, quella di oltrepassare i limiti della coscienza e della fisicità, risultò inevitabilmente perdente, come era logico aspettarsi. Ecco perché questa sera questi pezzi non annunciano più una sfida impossibile per ogni uomo, ma raccontano quella sfida e il tentativo onorevole che si è fatto. Qualcuno non ce l’ha fatta, altri si sono arresi ed eccoci qui, a rendere omaggio a chi della vita ha fatto una sfida.

In questo senso When the Music’s Over, l’unico momento della serata in cui viene fatto pubblicamente il nome di Jim Morrison (“A Jim, Jim Morrison, piaceva molto cantare questo pezzo, era la sua canzone preferita” dice Ray Manzarek) si allunga e si attorciglia in una jam di psichedelica memoria che cancella ogni sentimento dello spazio e del tempo. E naturalmente questo brano ripropone la domanda, impossibile ad essere esaudita, ma non per questo meno esaltante, che rende degna una vita di essere vissuta: “We want the world and we want it NOW”, vogliamo il mondo, tutto intero, e lo vogliamo adesso. Non è possibile, ma è bello tenere desta la richiesta. 

Il resto del concerto proseguirà a buoni livelli, con la citazione del vecchio blues di Willie Dixon Back Door Man che Morrison amava eseguire dal vivo e in cui sul palco a duellare alla chitarra sale un gigante dai baffi e dai lunghi capelli bianchi presentato come un eroe dei primi gruppi di surf californiani degli anni sessanta. E ancora: Alabama Song (Whiskey Bar), dal repertorio di Brecht, sorta di inno esistenziale di Jim Morrison (“Mostrami la via per il prossimo whiskey bar, moriremo tutti”), Five to One, Love me Two Times fino al vertice della serata, una lunghissima ed epica L.A. Woman

Ecco il momento di Mr Mojo risorto, Mr. Mojo risin’, city of light, donna di Los Angeles. Ray Manzarek, 74 anni portati benissimo, getta via con un calcio lo sgabello su cui è stato seduto tutta la sera per rialzarsi a dirigere questo scatenato rock-boogie psichedelico mentre Robbie Krieger non perde una battuta. Il bis è uno solo, ma un bis del genere non molti se lo possono permettere.

“Summer of love, 1967!” lo presenta Manzarek con l’inconfondibile “crack” di batteria e quel riff di tastiere entrato nella memoria collettiva. E’ Light my Fire ed è festa grande con il pubblico, giustamente impazzito, mentre sul palcoscenico piovono spinelli e reggiseni. Da qualche parte, lassù a Parigi, in quella piccola tomba nascosta tra dozzine di altre, Jim Morrison sta sicuramente sorridendo: ci aspetta lì, dall’altra parte di quel muro che a tutti prima o poi toccherà superare. Sarà veramente un “break on through to the  other side”, allora. 





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