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Home » Esteri » Africa » CAOS LIBIA/ La nuova strategia di Haftar per far cadere Serraj con gas e petrolio

  • Africa
  • Esteri

CAOS LIBIA/ La nuova strategia di Haftar per far cadere Serraj con gas e petrolio

Int. Marco Bertolini
Pubblicato 23 Gennaio 2020
Libia, Al Sarraj vs Haftar

Fayez Al Sarraj e Khalifa Haftar (LaPresse)

Haftar prova a far crollare il rivale Serraj dall'interno: chiudendo i pozzi petroliferi vuole scatenare una rivolta delle popolazioni che appoggiano il capo del governo di Tripoli

Il generale Haftar “è un abile stratega”, spiega il generale Marco Bertolini, già capo di stato maggiore della Extraction Force della Nato, e già, unico italiano, capo di stato maggiore del Comando Isaf in Afghanistan. Haftar ha sì firmato il trattato di tregua a Berlino con l’avversario Serraj, ma usa forza ed economia per realizzare il suo piano originale: farlo cadere utilizzando la rivolta dei suoi sostenitori. “Inizialmente la speranza di Haftar era che le milizie di Tripoli e quelle di Misurata abbandonassero Serraj, ma il piano non è riuscito grazie alle grandi disponibilità economiche del leader. Adesso Haftar ci riprova, lanciando qualche razzo (sei in tutto ieri, ndr) sull’aeroporto di Tripoli, al fine di spaventare le milizie della capitale, e soprattutto chiudendo i pozzi petroliferi, così da lasciare la popolazione della Tripolitania e di Misurata senza energia”.


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L’aeroporto di Tripoli ha sospeso i voli dopo essere stato colpito da sei razzi Grad. Lo ha riferito Libya Alahrar, imputando l’attacco alle milizie del generale Khalifa Haftar, che di fatto ha rotto la tregua. Cosa vuole ancora Haftar? Se ne infischia dell’accordo firmato?

No, non è che se ne infischia. Haftar ha guadagnato una posizione favorevole sul terreno, è arrivato alle porte di Tripoli, a sud, e l’aeroporto se non è già nelle sue mani poco ci manca. Ora sul campo Haftar ha conquistato una posizione decisamente vantaggiosa. Tenuto conto che almeno in teoria ha firmato la tregua, intende far capire che non è assolutamente intenzionato ad abbandonare quella posizione. Per arrivare a un compromesso fra i due tale da consentire la presenza di una forza di interposizione ci sarebbe bisogno di un riallineamento fra le due fazioni, che Haftar evidentemente non è disposto a concedere.


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In concreto, come si traduce tutto questo?

Haftar è disposto alla tregua, però non arretra di un metro davanti alle aspettative di qualcun altro.

Dallo scorso 17 gennaio le forze vicine al generale Haftar hanno bloccato diversi importanti stabilimenti e gran parte dei terminal portuali da cui viene esportato il petrolio. Il premier Giuseppe Conte ha detto che si tratta di un danno soprattutto per i libici. I siti petroliferi chiusi si trovano in Cirenaica e nel Fezzan: ci spieghi queste mosse.

È una sorta di ricatto: con questo blocco si riduce il rifornimento energetico, mettendo i libici, in particolare gli abitanti di Tripoli e Misurata, davanti alla prospettiva di una guerra oppure di un cambiamento di fronte. Occorre ricordare che all’inizio Haftar puntava su un voltafaccia delle milizie tripoline, che però non è finora avvenuto. È chiaro che se si tolgono le fonti di energia a quella parte di popolazione a cui appartengono le milizie di Serraj, qualcosa prima o poi succederà. È un altro tentativo per vedere se Serraj crolla dall’interno.


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Si parla di una possibile missione di pace. Ma come deve essere organizzata e sotto quale ombrello? Un intervento militare è totalmente da escludersi oppure potrebbe rendersi necessario per sbloccare i pozzi petroliferi e per garantire un embargo sulla fornitura di armi alle milizie libiche? 

Una missione di interposizione sarebbe complicata. È auspicabile da parte italiana, ci consentirebbe di tornare in Libia, visto che ne siamo stati cacciati. Una nostra partecipazione sarebbe utile per controllare quelle zone che vanno da Tripoli alla Tunisia, dove c’è lo snodo dei trafficanti di esseri umani. Ma è difficile.

Perché?

Ci vorrebbero forze importanti. Le due fazioni in guerra sono militarmente considerevoli e poi non c’è una linea di demarcazione chiara. Il ministro Di Maio cita l’esempio del Libano, ma è tutta un’altra cosa. In Libano c’è la Blue Line, una demarcazione precisa, con una recinzione, e lì basta mandare ogni tanto delle pattuglie a controllare. In Libia invece i due fronti sono così frastagliati che ci vogliono forze sul campo in grado di controllare stabilmente tutto.

Servirebbe l’egida dell’Onu?

Un’operazione militare non può prescindere da un’egida dell’Onu, la Nato non può deciderla e l’Ue da sola, anche con il sostegno Nato, non può far nulla. Dovrebbe essere messo in campo un contingente Onu, in cui la Ue può esercitare il comando, ma niente di più.

Spostandoci in un’altra zona incandescente, lo stretto di Hormuz, l’Europa scende in campo con una missione navale guidata dalla Francia, allo scopo di sorvegliare le navi europee. E l’Italia? Anche su questo fronte non conta più niente?

La Francia è una potenza militare non indifferente e ha soprattutto la spregiudicatezza di utilizzare questo potenziale, cosa che l’Italia invece non fa mai. Anche noi avremmo le possibilità militari, ma la Francia ha un peso politico più importante del nostro, non c’è paragone. Anche noi abbiamo due portaerei e una componente navale importante, ma con quale stampella politica gli italiani possono andare a comandare in una area politicamente così strategica? Nessuna.

(Paolo Vites)


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