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Home » Cultura » Cattolici e Politica » LETTURE/ Il dramma di un popolo e le parole (assenti) della politica

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LETTURE/ Il dramma di un popolo e le parole (assenti) della politica

Vincenzo Rizzo
Pubblicato 3 Gennaio 2021 - Aggiornato alle ore 08:37
(LaPresse)

(LaPresse)

Le persone più toccate dalla pandemia hanno bisogno di una parola vera, autentica, forte: una compagnia nell'anima. Ma chi dovrebbe parlare tace

È possibile in questo momento così grave e difficile parlare al cuore della gente? Ognuno di noi, e soprattutto le persone più toccate dalla pandemia, ha bisogno di una parola vera, autentica, forte: una compagnia nell’anima. La parola, infatti, come diceva il filosofo Gorgia, è una potente signora in grado di curare le ferite e di sanarle. E tuttavia, mai come in questo periodo le parole mancano e il mutismo prevale. Si tratta di una situazione strana che genera spaesamento e smarrimento. Tutti siamo rimasti colpiti, non a caso, dalle parole e dai gesti di Papa Francesco sotto la pioggia battente nello scorso marzo, ma la politica sembra non aver recepito tutta la portata di quell’insegnamento e di quella forza simbolica.


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Ma come mai la politica è afasica e non parla? O per meglio dire muove solo le labbra senza emissione vocale? La risposta dei leader nostrani è in particolar modo sconcertante, debole e grigia, perché arroccata su iniziative tecniche: Conte a emanare stancamente continui Dpcm, Azzolina a promettere mirabili banchi monoposto, Speranza a rassicurare sulle vaccinazioni. L’opposizione, a sua volta, si attarda a far rilevare le carenze nell’azione di governo e il mancato coinvolgimento in un momento così drammatico. Nessuno ha però pensato di fare direttamente un discorso forte e col cuore in mano alla nazione sui pericoli a tutti i livelli, sulla necessità di essere insieme, sul dovere di aiutare i deboli, sul vivere l’appartenenza a una comunità di destino, ecc. Non si è sentita una voce capace di com-muovere, cioè di muovere insieme un popolo, indicando una meta comune da raggiungere con sacrifici condivisi. Non è stata espressa, ancora, una parola capace di penetrare negli animi e di rianimarli.


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A livello internazionale, a dire il vero, non è che sia andata meglio. Trump ha fatto discorsi contro il Wuhan Virus e l’Oms, mentre Johnson ha provato a fare un discorso forte, promettendo “lacrime e sangue”, ma in maniera maldestra e fallimentare. Nel grigiore generale, due donne hanno parlato, invece, in modo diverso. Angela Merkel, recentemente, con voce rotta dall’emozione, cosciente di essere di fronte a un momento storico decisivo, ha chiesto sacrifici al suo popolo in prossimità delle feste natalizie, sentendosi vivamente parte di esso. Ursula Von der Leyen, inoltre, si è rivolta agli italiani, con empatia e con tono caldo, più volte nella nostra lingua, prima chiedendo scusa all’Italia per il ritardo negli aiuti Ue, poi ricordando l’importanza di Milano e la sua grandezza.


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Ma da che cosa deriva questa globale debolezza di parola? Non si tratta solo di una disabitudine alla formazione retorica o della pur innegabile inferiorità dei politici attuali rispetto a quelli del passato, che non uscivano certamente fuori da un blog o da una piattaforma internet o dalle chiacchiere di un bar. Non si tratta neanche dello stile comunicativo a cui i politici sono stati omologati dagli esperti. Gli stessi discorsi: inodori, incolori, insapori, sempre prevedibili, mai una sterzata: neanche a pensarci una vibrazione interiore o un’idea. Sembra, proprio, di essere dentro la crisi del linguaggio descritta da Hugo Von Hoffmannstahl ne La lettera di Lord Chandos con parole che si sgretolano o non arrivano a segno, sopraffatti dagli uomini grigi del celebre Momo di Ende, pronti a rubare il breve tempo delle nostre vite. E d’altro canto resta ignota la lezione sull’importanza della parola di Bachtin e sulla necessità della parrēsia (parlar franco) evidenziata da Foucault nei suoi studi sulla filosofia antica.


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La difficoltà di parola, oggi, mette a nudo il rapporto tra politica e abisso, perciò molti politici, e non solo, sono in crisi. La presa di parola, in questo momento, davanti a un altro, a un popolo, a un’umanità angosciata ha a che fare con la vita, con il dolore, con la morte, con la speranza di un futuro: questioni riguardanti la profondità del cuore umano. Non tutti perciò sono/siamo in grado di parlare. La riduzione della vita a narcisistica immagine riuscita e performante di sé (Lasch), l’inversione della morte a diritto da usare a piacimento (aborto, eutanasia, suicidio assistito, ecc.) e il mistero del proprio futuro diventato progetto di opulenza personale, escludendo altri, hanno un peso significativo. Bisogna, invece, aver fatto esperienza di una vita vera, di una propria sconcertante vulnerabilità e aver tremato per il proprio futuro, per cogliere l’intensità di ciò che sta accadendo. La parola, infatti, trae nutrimento e riceve forza non da sé, da uno stile o una tecnica, ma da qualcosa di più grande, di più alto, di più vero che sempre la precede.


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Chi parla è sempre anche parlato e abitato da qualcosa/qualcuno con cui parla e a cui risponde. Socrate rispondeva al suo demone interiore, Gesù al Padre, i santi al superiore del loro ordine, i grandi o i piccoli della storia a dei Padri, ecc. L’attuale mancanza di parola, insomma, rivela un dramma in atto: la pandemia è il grave sintomo di una malattia più grave e precedente: il nichilismo. Diventa, perciò, per tutti, ancor più attuale e decisiva la domanda posta da don Julián Carrón: che cosa ci strappa dal nulla? Tale domanda non riguarda solo adulti credenti di movimenti ecclesiali o associazioni, ma è urgente per tutti: ora. Una parola strappata dal nulla può farci respirare.

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