Francesco è stato un grande comunicatore, capace di ridurre le distanze delle persone dalla Chiesa, spiega Javier Martinez-Brocal
Un Papa capace di comunicare con le persone, di essere vicino alla gente per far capire che la Chiesa si interessa a loro, rendendo così più accessibile il suo messaggio. Un Pontefice che, al di là dei temi trattati, ha sottolineato con i suoi gesti, come la visita ai detenuti del Giovedì Santo, che ciò che definisce una persona è la sua dignità, quella che gli viene dal fatto di essere figlio di Dio.
È questa parte dell’eredità umana e spirituale di Francesco il vero lascito del suo pontificato. Lo racconta Javier Martinez-Brocal, vaticanista di ABC e della tv spagnola La Sexta (autore di Conclave. Le regole per eleggere il prossimo papa, Amazon, 2025), che spiega come due temi affrontati dal Papa conteranno nella scelta del suo successore: la pace nel mondo e la fraternità fra i popoli.
Difficile fare i nomi dei possibili candidati, anche se quello del cardinale Parolin rimane il modello a cui ispirarsi. Di certo, comunque, il prossimo Pontefice dovrà avere la stessa capacità di comunicare, di stare nei media, che ha avuto Bergoglio.
Tu lo hai conosciuto: come si comportava papa Francesco con i giornalisti, che persona era dal punto di vista umano?
C’era un rapporto normale tra noi, di certo non all’insegna della solennità. Quando penso a lui, rido sempre, nel senso che comunicava una grande umanità attraverso il sorriso, la gioia che esprimeva. E, nello stesso tempo, manifestava un grande rispetto: mi diceva che dovevo fare bene il mio lavoro, anche se avesse significato mettere in difficoltà il Papa. Rispettava la mia professione e questo, a me, dava molta serenità. Insomma, aveva uno stile colloquiale che metteva a loro agio le persone.
Insieme avete anche scritto un libro. Com’è stato lavorare con lui?
Ha posto due condizioni per realizzare Il successore. I miei ricordi di Benedetto XVI. La prima era che non gli portassi nessun regalo, perché i regali condizionano. “Così – diceva – tu fai le domande che vuoi e io do le risposte che voglio”. Esigeva, quindi, totale libertà.
Poi mi ha chiesto che nessuno sapesse del volume, non perché volesse per forza mantenerlo segreto, ma anche qui per poter parlare liberamente, perché nessuno suggerisse domande o temi da trattare o non toccare. Con lui emergeva l’idea di una grande libertà.
Le sue qualità umane hanno influito anche sulla sua elezione?
Nel conclave che lo ha eletto, i cardinali erano accomunati dalla percezione che il Papa avesse subìto delle pressioni, anche se si trattava di una percezione che non corrispondeva al vero. Quando sono entrati nel conclave, si chiedevano cosa aveva portato Benedetto XVI a rinunciare. Per questo hanno eletto un Papa che poteva riconquistare ambiti di libertà per il successore di Pietro.
Lui si è mosso su questa linea sin dall’inizio, con piccoli gesti, anche simbolici, senza guardare, per esempio, quale dovesse essere il colore delle scarpe da indossare, la macchina da usare, la destinazione dei suoi spostamenti o la casa in cui abitare.
Soprattutto negli ultimi mesi si è parlato spesso di una sua possibile rinuncia, seguendo le tracce di Ratzinger. Ci ha pensato davvero?
Ci sono stati diversi momenti nel suo pontificato in cui la rinuncia era una possibilità reale, verosimile. Papa Francesco, però, voleva custodire la libertà del suo successore: per lui la decisione di Benedetto XVI è stata un’eccezione in una tradizione. Non voleva che la rinuncia diventasse una prassi.
Francesco ha riportato l’attenzione su temi come il rispetto della natura e la pace e ha lasciato il segno grazie anche a diversi suoi viaggi. Che cosa ha consegnato principalmente come eredità al suo successore e alla Chiesa?
Ha saputo leggere molto bene i segni dei tempi, ha indicato un nuovo modo di vivere la leadership nella Chiesa. Ha capito che, in un mondo in cui la gente manda un tweet a un Capo di Stato e si aspetta che lo legga, o si è vicini alle persone o non si viene ascoltati.
Un approccio che non va letto in opposizione ai predecessori: non è che chi è venuto prima di lui non cercasse il contatto con la gente, Francesco però lo ha trasformato in qualcosa di esplicito. Ecco perché riceveva persone in continuazione e ha impiegato parte del suo tempo per chiamarle, per inviare delle lettere. Sapeva che tutto questo avrebbe aiutato le persone a capire che la Chiesa è un’istituzione vicina, misericordiosa, tenera.
Nonostante fosse convalescente, i suoi ultimi giorni sono stati molto intensi. Era consapevole di quello che stava rischiando?
Un’icona del pontificato, per me, è stata il Giovedì Santo, quando è andato in carcere. Lo ha fatto poche ore prima della sua morte, per dirci che quello che ci definisce non sono i nostri peccati, non sono gli errori che abbiamo commesso, ma la dignità che abbiamo. Lo diceva anche parlando con gli anziani, gli ammalati. Un messaggio condiviso anche da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI; Francesco, tuttavia, ha saputo comunicarlo con questi gesti.
Che indicazioni lascia il suo pontificato ai cardinali che dovranno decidere chi sarà il successore?
Ci sono due temi che fanno parte del suo testamento, che costituiscono la cornice dentro la quale dovrà essere eletto il successore: la pace del mondo e la fraternità tra i popoli. Un tema che lo preoccupava moltissimo era la polarizzazione, l’uso strumentale della religione per dividere, l’abuso delle categorie religiose nella politica.
Le dichiarazioni di un leader che dice di essere stato salvato da Dio, eletto da Dio, sono frutto di un “provvidenzialismo politico” che strumentalizza la religione e non ne coglie i valori autentici. Quando ha scritto la Fratelli tutti mi sono chiesto: “Ma perché proprio questo tema? Ce ne sono altri più importanti”. Cinque anni dopo si è visto che questo, in realtà, era il tema dei temi.
Che conclave possiamo immaginare in questo contesto?
Sarà interessantissimo. Francesco ha cambiato il conclave perché ha forzato i cardinali a non guardare solo ai problemi dell’Europa, ma a quelli di tutto il mondo. E questa è una ricchezza. Il problema è che ora il Papa è diventato un’icona e i cardinali non dovranno solo individuare quali sono i problemi da affrontare, che è già complicatissimo, ma devono azzeccare la persona capace di incarnare la loro progettualità.
Non basta che il Papa abbia buone idee, occorre che sia capace di essere presente nei media e incarnare una posizione. Lo Spirito Santo dovrà fare il suo.
Perché è così importante il rapporto con i mezzi di comunicazione?
Ormai non è più possibile avere un Papa che non parli con i media, che non dia spiegazioni delle proprie decisioni: non si possono trattare i giornalisti come notai delle sue decisioni, senza rendere conto delle scelte alla società e al mondo.
Per il conclave spesso è valso il motto “chi entra da Papa ne esce cardinale”, ma chi potrà essere il prossimo Pontefice?
Non mi sento di fare nomi. Mi sembra che Parolin, se non è candidato, è almeno il modello di candidato: una persona che ha consapevolezza di qual è la situazione mondiale e ha le capacità di affrontarla politicamente, che però deve anche essere un pastore.
C’è un gruppo di cardinali molto ampio, i cardinali missionari, per i quali la situazione geopolitica è meno rilevante. Per loro è più importante la questione pastorale. Bisognerà vedere cosa intendono fare questi cardinali, se vogliono un Papa politico, un Papa pastore o uno che riesca a incarnare entrambe le posizioni.
(Paolo Rossetti)
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