Per l’ISTAT le persone che hanno rinunciato a prestazioni sanitarie per liste d’attesa o costi sono passate da 4,5 a 6 milioni. Dato negativo anche al Nord
Quando si muove ISTAT la temperatura del mondo dell’informazione immediatamente si alza. E non può essere diversamente perché i rapporti dell’Istituto ci fotografano con una particolarità, d’altra parte è l’Istituto nazionale di statistica, che ci mette sempre con le spalle al muro inchiodandoci con numeri, tabelle, grafici e figure che vanno lette ed interpretate ma che lasciano poco spazio alla fantasia e all’immaginazione. Non è la fredda legge dei numeri che detta le regole ma è la nostra scarsa attitudine a leggerli e a recepire i messaggi che questi mandano che ogni volta colpisce: chissà che con un Papa matematico migliori anche questa, per ora del tutto insufficiente, attitudine.
È quello che sta succedendo anche in questi giorni con il nuovo rapporto dell’Istituto (“Rapporto annuale 2025. La situazione del Paese”), giunto alla trentatreesima edizione: giornali, radio, televisioni, internet, e tutto quello che si muove attorno al mondo della informazione ha dato conto a suo modo, cioè con le mille sfaccettature che caratterizzano la lettura dei dati, del contenuto del rapporto, ed anche Il Sussidiario ha fatto la sua parte.
Proprio perché molto è già stato raccontato e la lettura del documento adesso lascia lo spazio alla riflessione ed alla valutazione anche di aspetti particolari e specifici, in questo contributo si mette a fuoco una sola, ma importante, questione che attiene al mondo sanitario, e cioè la preoccupazione generata dai numeri che riguardano la quota (e le caratteristiche) dei cittadini che rinunciano alle cure.
Secondo il Rapporto i cittadini del nostro Paese che nel 2024 hanno rinunciato alle cure per motivi economici, organizzativi, o legati all’offerta di servizi sono stati il 9,9% della popolazione, cioè quasi un italiano su dieci. Nello specifico la domanda formulata non è esattamente riferita alla rinuncia alle cure, ma si è chiesto qualcosa di più limitato (e cioè se negli ultimi 12 mesi si è rinunciato a visite o prestazioni specialistiche) vale a dire se vi è stata rinuncia a qualche prestazione (e non all’intero percorso di cura).
Alla domanda il 6,8% della popolazione ha affermato che ciò è avvenuto principalmente a causa delle lunghe liste di attesa mentre il 5,3% ha segnalato la difficoltà di pagare le prestazioni sanitarie, e poiché la somma delle due ragioni arriva al 12,3% (maggiore del 9,9% totale) significa che per il 2,2% le motivazioni sono state più di una. Rispetto agli anni precedenti si era registrata una frequenza di rinuncia del 6,3% nel 2019 e del 7,5% nel 2023, segnale che la situazione sta rapidamente peggiorando.
Molti sono i dettagli forniti dal Rapporto: la rinuncia è maggiore nelle donne (11,4%) che negli uomini (8,3%), nelle persone di 45-54 anni (13,4%) che nelle altre età, nel Centro Italia (10,7%) rispetto al Nord (9,2%) o al Sud (10,3%) anche se queste differenze territoriali sono minori rispetto al 2019 perché è peggiorata la situazione al Nord. Inoltre le persone con un alto livello di istruzione rinunciano di meno rispetto a quelle con titoli di studio inferiori.
Anche le motivazioni per cui si è rinunciato alle cure (economiche, liste di attesa, ecc.) non sono le stesse in tutti gli strati di età, di livello di istruzione, e di territorio, con la lunghezza delle liste di attesa che sono la ragione principale di tutti gli aumenti che sono stati osservati.
Il paragrafo del Rapporto ISTAT dedicato alla rinuncia alle cure termina esprimendo una preoccupazione che merita di essere segnalata: il peggioramento nell’accesso alle prestazioni che l’ISTAT ha registrato sta interessando anche quei gruppi di popolazione (esempio: residenti nel Nord e persone con un elevato titolo di studio) che prima del periodo pandemico godevano di una situazione di vantaggio.
Tutto ciò in un contesto generale che vede una sostanziale invarianza dei dati di povertà assoluta rispetto all’anno precedente, dove le famiglie così classificate sono oltre 2,2 milioni (8,4% del totale) e coinvolgono circa 5,7 milioni di individui (9,7% della popolazione), ma in notevole crescita rispetto, ad esempio, al 2014 (+2,2% di famiglie, +2,8% di individui).
Una fotografia cruda, amara, preoccupante, quella che ISTAT ci consegna a proposito della rinuncia alle cure, anche perché ciò che l’Istituto descrive non è una fotografia statica e ferma nel tempo, ma porta con sé uno sviluppo temporale che dice che la situazione è in deciso peggioramento: certo, occorre anche approfondire il valore delle stime formulate da ISTAT perché dai 4,5 milioni di rinunciatari del 2023 saremmo passati ai quasi 6 milioni del 2024, un deciso aumento in un solo anno.
A temperare questo risultato, ma non è certo un tentativo di indorare la pillola, ci vengono in soccorso due osservazioni.
Da una parte è bene ricordare che i dati non si riferiscono alla rinuncia alle cure ma alla rinuncia alle prestazioni, il che sta ad indicare che probabilmente non ci troviamo di fronte alla interruzione totale di un percorso di cura ma solo alla rinuncia ad alcune attività, evento comunque grave ma decisamente più limitato che non la rinuncia alle cure.
D’altra parte ci si chiede se queste rinunce hanno conseguenze significative sullo stato di salute delle persone. Premessa la difficoltà di condurre in maniera statisticamente valida questo tipo di valutazioni (evitando quindi l’aneddotica), per il momento i dati macroscopici di mortalità non segnalano variazioni che possano essere in qualche modo attribuibili alla rinuncia alle prestazioni; i dati di mortalità evitabile si presentano favorevoli (cioè bassi) nel nostro Paese rispetto ad altre nazioni europee (dati OCSE); l’attesa di vita dopo il crollo del 2020 ha ripreso a salire in maniera rilevante.
Qualche segnale di attenzione arriva però dalla attesa di vita in buona salute che per le donne, ad esempio, si è fermata a 56,6 anni che è il peggior risultato dell’ultimo decennio.
Uscendo dal tema sanitario, una delle modifiche più importanti che il Rapporto segnala riguarda i cambiamenti che stanno interessando la struttura della famiglia: famiglie più piccole, spesso con un solo componente, aumento delle libere unioni, famiglie con un solo genitore, minor numero di famiglie con figli, e così via, tutte situazioni che di certo non favoriscono la presa in carico (dal punto di vista assistenziale, ma non solo) del paziente fragile. Rimane tutto da vedere, ma il Rapporto non ce ne dà conto, quanto queste variazioni nella struttura della famiglia possano influenzare (in peggio o in meglio) anche la frequenza e le caratteristiche della rinuncia alle prestazioni che oggi osserviamo.
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