A Roma “il fatto di essere stranieri e le differenze di nazionalità contano meno”, scriveva Montaigne. Merito di alcuni papi
A Santa Maria Maggiore a Roma, dove papa Francesco ha voluto essere sepolto, c’è anche la tomba di un personaggio che certamente era nelle corde di Bergoglio. Si chiama Antonio Manuel Ne Vunda, primo ambasciatore del Regno del Congo. Nel 1608 era arrivato nella capitale dopo un viaggio avventuroso durato quattro anni, per chiedere al papa di allora, Paolo V, protezione rispetto alle violenze dei colonizzatori spagnoli e portoghesi.
Arrivato alla meta però aveva pagato la durezza del viaggio ed era morto dopo pochi giorni: il papa era voluto andare al suo capezzale per riceverne le credenziali e accogliere l’ambasciata. Poi aveva dato ordine che venisse seppellito con tutti gli onori nella Basilica mariana, commissionando un busto allo scultore Francesco Caporale. Naturalmente per realizzare il volto venne usato un marmo nero, fedele al colore della pelle; un colore che risalta perché circondato dal marmo vistosamente colorato del mantello.
Oggi questa inaspettata opera di 400 anni fa apre una mostra che merita attenzione, organizzata alle Scuderie del Quirinale. Si intitola Barocco globale ed è un viaggio in una stagione storica segnata dalla vocazione universale di Roma, città aperta oltre che eterna.
“Roma è la città più cosmopolita del mondo”, aveva infatti scritto Michel de Montaigne nel suo “Viaggio in Italia”. “Qui il fatto di essere stranieri e le differenze di nazionalità contano meno, poiché per sua natura contiene forestieri dappertutto e chiunque vi si trova come a casa propria”.
La vocazione universale di Roma per esprimersi aveva portato alla messa a punto di un linguaggio inclusivo, non dogmatico, adattabile ai contesti e naturalmente enfatico: questo linguaggio capace di parlare a tutti era il barocco. Una delle sue caratteristiche è quello di essere per sua natura un linguaggio pubblico. È ben nota la circostanza quando papa Urbano VIII aveva strappato Bernini dalla pratica della scultura su committenza per trasformarlo in architetto che doveva “scolpire” la città per farne espressione eloquente e affascinante della sua missione universale. Da artista per pochi ad artista per tutti.
Il barocco è inoltre un linguaggio predisposto alle contaminazioni. Emblematico quanto accaduto ad un’immagine preziosa e protetta dalla devozione come la Salus populi romani: papa Pio V aveva tolto il “copyright”, dando licenza di replicarne copie anche adattandole alla cultura di popoli diversi: in mostra se ne vede ad esempio una dipinta su un rotolo cinese nel XVII secolo con lineamenti naturalmente adattati al contesto.
E che dire della stupefacente mappa del globo conservata in Vaticano, pubblicata nel 1602 grazie all’iniziativa di Matteo Ricci, con diciture in ideogrammi, dove la Cina è posta al centro? L’universalismo di Roma non era sinonimo di imperialismo: lasciava spazio anche alla possibilità che la prospettiva da cui guardare il mondo non fosse per forza quella occidentale.
Uscendo dalla mostra viene da chiedersi se quello che si è visto non sia una chiave per decifrare anche la Roma di oggi: quella città prodigiosamente capace di farsi crocevia del mondo, di essere globale cioè inclusiva, di radunare potenti e popolo in una stessa piazza e sotto uno stesso cielo. E capace di abbracciare che ci vive o chi vi passa con la bellezza avvolgente del suo barocco senza tempo e senza confini.
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