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Home » Politica » Referendum » DOPO IL REFERENDUM/ Un risultato che mette a rischio il “premierato” della Meloni

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DOPO IL REFERENDUM/ Un risultato che mette a rischio il “premierato” della Meloni

Stelio Mangiameli
Pubblicato 11 Giugno 2025
Meloni a Cernobbio

Premier Giorgia Meloni al Forum di Cernobbio (ANSA 2024, Filippo Attili)

L'esito dei referendum dell'8-9 giugno si rivela insidioso per il governo, soprattutto in vista dei due referendum consultivi su giustizia e premierato

I risultati dei referendum dell’8-9 giugno sono stati commentati dal mondo politico in vario modo. I promotori, tra questi la Cgil, hanno considerato il risultato negativo come il segnale di una crisi della democrazia pericolosa per il nostro futuro politico. I partiti di sinistra, di centrosinistra e di centro che hanno sostenuto i referendum, sia pure con diversi distinguo, hanno affermato che il risultato è comunque positivo in attesa della prossima competizione elettorale del 2027, dato che i voti raccolti sono più dei voti con cui l’attuale maggioranza sta governando.


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All’opposto, la coalizione di centrodestra ha affermato che il risultato ha rafforzato il governo e che il tentativo di dare una spallata alla maggioranza mediante il referendum è fallito, proprio grazie all’astensione degli elettori.

In una qualche misura tutti hanno detto una parte della verità, ma – anche nei commenti – sembra mancare il quadro d’insieme e le implicazioni sistemiche di ciò che questa battaglia referendaria può comportare nel prossimo futuro.


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Infatti, si è preferito scendere nei dettagli dei cinque risultati, come mettere in evidenza il maggior consenso per l’abrogazione del Jobs Act (89%), oppure il flop del referendum sul dimezzamento del termine per ottenere la cittadinanza (65,5%), e così via.

In primo luogo, ascriversi il merito dell’astensionismo e, prima ancora, averlo invocato durante la campagna elettorale non può costituire un merito politico, in nessun caso. Gli italiani disertano ormai tutte le competizioni elettorali, ed è vero che alle politiche del 2022 l’affluenza è stata del 63,9%, così come è certamente un dato di fatto che solo la divisione del fronte della sinistra, del centrosinistra e del centro ha consentito al centrodestra di riuscire ad avere una maggioranza parlamentare, nonostante la maggioranza degli elettori non avesse votato per i partiti di quella coalizione.


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Infatti, nel 2022 il centrodestra ha ottenuto 12.129.547 voti, ma ove i tre raggruppamenti di opposizione avessero fatto, in qualche modo, fronte comune, avrebbero potuto contrapporre ben 13.578.892 voti.

Come si vede, lo scarto non sarebbe stato poco, anche se nel complesso entrambe le due (ipotetiche) parti sono grandi minoranze, ben lontane da conquistare una vera maggioranza del corpo elettorale. Qui si situa da un po’ di tempo il tema della legittimazione della politica, non potendo soddisfare la risposta che solitamente si dà, e cioè che chi vota decide anche per chi ha scelto di non votare.

Ancora più preoccupante è stato il dato della partecipazione alle elezioni europee del 2024, alle quali ha preso parte solo il 49,68% dell’elettorato; la più bassa affluenza mai registrata. La spiegazione che si è data di questo fatto, e cioè che l’idea di Europa è lontana dai cittadini, è infantile e inadeguata.

Gli italiani, così come gli altri cittadini europei, sanno benissimo che ormai l’Europa, nel bene come nel male, conta più dello Stato nazionale, soprattutto per gli aspetti economici, che toccano imprenditori e lavoratori, tanto dipendenti quanto autonomi, e anche nel campo dei diritti e dei nuovi diritti l’Europa fa più di quello che fanno i governi nazionali.

Il problema europeo è legato alla scarsa parlamentarizzazione del sistema istituzionale e i cittadini sanno bene che i governi a livello europeo operano ormai da tempo per limitare l’azione europea attraverso il circuito del Consiglio europeo e il Consiglio dell’Unione Europea; ciò nonostante, la lotta alle ricadute negative della pandemia da Covid e il post-pandemia sono stati un momento in cui l’integrazione ha recuperato un po’ di terreno, anche se ciò non ha portato ad una chiarezza sui nodi fondamentali dell’integrazione, e neppure la guerra ai confini europei e i pericoli dell’immigrazione illegale sembra che riescano a smuovere i governi degli Stati membri dai loro calcoli, che ci possono portare alla distruzione dell’UE.

Insomma, ogni risultato elettorale ha il suo perché e, per quanto sia il risultato di una congiuntura storica particolare, da ognuno di questi si possono ricavare indicazioni di carattere generale che dovrebbero aiutare a prendere le decisioni politiche più appropriate.

Quali sono, allora, le indicazioni che si possono ricavare dal risultato della partecipazione al voto dei referendum? Come sappiamo l’affluenza si è fermata al 30,6%, ben lontano dal quorum strutturale della “maggioranza degli aventi diritto al voto” previsto dall’art. 75 della Costituzione.

Questo risultato non impatta in alcun modo sull’esistenza del Governo Meloni; ma solo fino a quando il governo amministra e non governa. Infatti, per governare seriamente il governo in carica e la sua maggioranza hanno bisogno di procedere con le riforme sia legislative, sia costituzionale, ed è da tempo che chi governa il Paese pensa di potersi aggiustare Costituzione e leggi come meglio ritiene e senza la ricerca di una collaborazione con l’opposizione, anche se – bisogna dire la verità – non si è mai vista una opposizione così poco collaborativa come quella che attualmente è presente nel Parlamento.

La maggioranza vuole dare luogo ad una ripresa del regionalismo e l’opposizione si schiera a favore del più bieco centralismo; il governo propugna una timida separazione delle carriere dei magistrati requirenti e giudicanti e l’opposizione spara alzo zero che è in pericolo la democrazia e l’indipendenza dei giudici, senza tenere conto della mancanza di giustizia da cui è afflitta la nostra magistratura e senza neppure alzare lo sguardo oltre i confini dell’Italia; la Meloni lancia il cosiddetto premierato, per modificare la forma di governo, e l’opposizione grida alla violazione delle prerogative del capo dello Stato, senza spendere una parola sullo svuotamento politico del Parlamento che è effettivamente un vulnus della democrazia.

In definitiva, la maggioranza o si muove in modo stravagante, o timido, mentre l’opposizione è sempre e solo “contro”, in modo anche scalmanato come è stato mostrato dal comportamento di qualche giorno fa al Senato, quando i senatori di opposizione si sono seduti per terra davanti ai banchi del governo.

Può la Meloni e il centrodestra tirare dritto e realizzare le riforme che possono mettere realmente in moto il governo del Paese?

Il dato sistemico che emerge dai dati dei referendum è proprio questo. Per amministrare ed effettuare le scelte di sopravvivenza, la Meloni non sarà disturbata da queste opposizioni che sono troppo inconcludenti; e corre realmente il rischio di passare anche la prossima legislatura a Palazzo Chigi.

Tuttavia, per fare riforme istituzionali o costituzionale di un qualche pregio la Meloni corre il rischio di rimanere inchiodata al palo.

Il voto popolare certamente non è stato sufficiente per abrogare le leggi sottoposte a referendum, ma ha coalizzato comunque le opposizioni contro il governo e la maggioranza, trascinando al voto oltre 14 milioni di elettori che in modo o nell’altro hanno espresso in massima parte (89,06%) un voto che mutatis mutandi è di opposizione generica al governo.

Che cosa accadrebbe se venissero sottoposti a referendum costituzionale, nei prossimi mesi, tanto la separazione delle carriere dei magistrati requirenti e giudicanti, quanto il cosiddetto premierato?

Come è noto, il referendum costituzionale (art. 138 Cost.) è profondamente diverso da quello abrogativo (art. 75 Cost.) proprio perché per il primo non è previsto il quorum strutturale ed è rilevante il solo risultato a prescindere dal numero dei partecipanti. Peraltro è certo che per quelle due riforme costituzionali si passerà per il corpo elettorale, sia perché la maggioranza non le potrà approvare con i due terzi dei voti delle Camere (l’unica maggioranza che può evitare l’eventuale referendum), sia perché richiedere il referendum costituzionale è molto più semplice che proporre un referendum abrogativo.

Le opposizioni portano a casa un bottino di 12 milioni di elettori (con tendenza a crescere) che possono essere schierati agevolmente contro entrambe le riforme della Meloni e soprattutto contro il premierato.

La Meloni sarà in grado di mobilitare il corpo elettorale per difendere le sue riforme?

Possiamo trarre allora un’indicazione dal risultato referendario. Maggioranza e opposizione nel nostro Paese non riescono a collaborare nell’interesse della Repubblica, e ciò comporta che i governi, più o meno stabili, siano condannati ad amministrare, ma non possano governare; le opposizioni sono deboli, ma capaci pur sempre di frapporre un ostacolo al potere di governo.

Qui viene in mente – non si dolga dell’accostamento la Presidente del Consiglio – quanto è accaduto a Renzi ai tempi della riforma costituzionale. Come è noto, anche in quell’occasione vi fu un referendum abrogativo, quello contro le trivelle, che nell’aprile 2016 raccolse il 31,2% dei voti. La partecipazione non fu sufficiente all’abrogazione della legge, ma coagulò tutta l’opposizione nei confronti del governo, che poi Renzi non seppe fronteggiare nel referendum costituzionale del 4 dicembre 2016; la sua riforma si arrestò e lui stesso fu costretto alle dimissioni.

La Meloni non è certamente Renzi, ma – senza pretesa di dare consigli non richiesti – se vuole rimanere un’altra legislatura a Palazzo Chigi, dovrebbe valutare attentamente questo precedente.

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Tags: Giorgia MeloniMatteo RenziCgilGoverno Meloni

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