Gli analisti israeliani prevedono un drastico indebolimento delle capacità nucleari dell’Iran, ma sono negativi sulla riuscita del proposito n.1 di Netanyau
Era già tutto previsto. Tutto il mondo aveva capito da tempo che Israele, dopo aver messo nel mirino Hamas, Hezbollah, Houthi e tutti gli altri pianeti della galassia fondamentalista islamica (gruppi di combattenti sparsi tra Iraq, Siria, Pakistan e Afghanistan), avrebbe colpito al cuore la cabina di regia del terrore che da troppi anni stringeva la morsa attorno allo Stato ebraico.
Un assedio che era, ed è, ispirato, finanziato e armato dagli ayatollah, fin dalla loro ascesa al potere, nel 1979, dopo i disordini che videro Khomeini ritornare dall’esilio, e la sostituzione della monarchia di Mohammad Reza Pahlavi con la Repubblica Islamica.
Il carismatico leader divenne il capo politico e religioso, una Guida suprema, appunto un ayatollah, e l’Iran, da prototipo di una modernizzazione di stampo occidentale, divenne una rigida nazione fondamentalista, devota al credo sciita duodecimano imamita, di fatto una teocrazia spietata verso oppositori o non osservanti, e con tre pilastri a sorreggere la costituzione religiosa: mettere in fuga il Grande Satana (gli Stati Uniti e i loro alleati) dal Medio Oriente, mettere le mani su La Mecca estirpandola dal controllo sunnita, e soprattutto distruggere Israele. Era il disegno che voleva proiettare l’Iran alla guida dell’intero quadrante, una sorta di Grande Persia interlocutrice per il resto del mondo.
Era già tutto previsto. Eppure Seyyed Ali Ḥoseynī Khamenei, dal 1989 successore di Khomeini, sembra non abbia calcolato l’imminenza dell’attacco israeliano (malgrado gli Stati Uniti avessero da poco ordinato la riduzione del loro personale diplomatico in Iraq, Bahrein e Kuwait), e non abbia creato uno scudo protettivo per gli scienziati che hanno guidato la ricerca nucleare, né per gli esponenti di vertice del suo apparato militare, che sono stati puntualmente eliminati nei primi strike dell’aviazione di Tel Aviv.
Una leggerezza incomprensibile, soprattutto in un Paese che anche recentemente aveva dovuto assaggiare le potenzialità “chirurgiche” delle forze armate nemiche, ad esempio con l’eliminazione del leader di Hamas Ismail Haniyeh (lo scorso settembre), mentre era ospitato a Teheran in un appartamento gestito dai Pasdaran iraniani, in una trasferta lampo dal suo rifugio dorato a Doha. Un’umiliazione per il regime, con la consapevolezza che il Mossad aveva saputo corrompere agenti dell’unità di sicurezza Ansar al-Mahdi, incaricata di proteggere gli alti funzionari.
Un regime durissimo, insomma, ma permeabile, tanto che negli attacchi dei giorni scorsi è chiara la partecipazione attiva di infiltrati israeliani in territorio iraniano, sia come humint (l’intelligence affidata ad agenti sul campo) che come vere e proprie prime linee, armate perfino di droni kamikaze assemblati in loco e diretti sui bersagli da “illuminatori” posizionati ad arte.
Adesso, secondo l’analista israeliano Amir Tibon, spuntano alcune domande. Quanti danni ha fatto realmente Israele al programma nucleare iraniano? In che misura gli Stati Uniti sono coinvolti in questo attacco? Come impatterà tutto questo sulla guerra contro Hamas a Gaza?
Basandosi sulle evidenze confermate, Israele è riuscita ad eliminare diversi alti comandanti militari iraniani e scienziati nucleari e alti funzionari coinvolti nella ricerca dell’Iran delle armi nucleari, e ha distrutto tutto ciò che era rimasto dei sistemi di difesa aerea del Paese (gran parte dei quali è già stato degradato nei precedenti attacchi israeliani).
Resta da verificare l’entità dei danni agli impianti nucleari iraniani a Natanz e a Fordow, il più profondo nel sottosuolo. Probabile che l’IDF (le forze armate di Tel Aviv) chiederà agli Usa una limitata fornitura delle temibili GBU-57 MOP (Massive Ordnance Penetrator), gli unici ordigni in grado di sfondare i tanti metri di cemento armato dei bunker.
La reazione iraniana è iniziata diverse ore dopo l’attacco iniziale di Israele, con il lancio di centinaia di droni e missili balistici, in gran parte intercettati dai sistemi di difesa antiarea israeliana, ma alcuni comunque penetrati ed esplosi a terra.
A Tel Aviv gli analisti sospettano che l’Iran, temendo di sembrare una tigre di carta, risponderà in modo molto più forte di quanto non abbia fatto dopo i precedenti attacchi di Israele nell’ottobre 2024. Il che fa tramontare qualsiasi ipotesi di un contenimento del conflitto, mentre gli ayatollah continuano nella loro retorica minacciosa contro tutti, Stati Uniti compresi, riuscendo ad attirare la risposta altrettanto minacciosa della Casa Bianca, che vedeva un Trump ancora invocare i negoziati in Oman, e che lo ha visto poi in poche ore tuonare “Se venissimo attaccati in qualsiasi modo, forma o livello dall’Iran, la piena forza e grandezza delle forze armate statunitensi si abbatteranno su di voi in proporzioni mai viste prima”, facendo eco a Netanyahu che avvisava Teheran “Ancora non avete visto niente”.
Il quadro emergente indica un attacco israeliano ambizioso e multistrato, con più obiettivi (riassunti da un altro analista, Zvi Bar’el): minare il controllo militare del regime islamista; danneggiare le sue capacità nucleari, conoscenze e competenze; disabilitare le opzioni di risposta dell’Iran; creare uno shock morale; e forse innescare una rivolta civile che potrebbe portare al crollo del regime della Repubblica islamica.
Bisogna considerare però che il programma nucleare iraniano è stato costruito nel corso di decenni e non si basa su un singolo gruppo d’élite di scienziati. Allo stesso modo, l’esercito iraniano e le guardie rivoluzionarie non dipendono da un sottile strato di figure di alto livello la cui eliminazione farebbe crollare l’apparato militare o nucleare del Paese: gli alti funzionari eliminati – tra cui il capo di stato maggiore Mohammad Bagheri e il comandante delle guardie rivoluzionarie Hossein Salami – sono già stati sostituiti da nuovi leader.
Danni significativi alle strutture nucleari potrebbero effettivamente ritardare lo sviluppo del programma nucleare, ma non fermare l’ambizione dell’Iran di diventare uno Stato nucleare o alla fine acquisire armi atomiche. Un’ambizione che avrebbe dovuto essere congelata nell’accordo nucleare del 2015, che ha concesso all’Iran sollievo economico e stabilità del regime a lungo termine in cambio di limiti rigorosi: arricchimento dell’uranio limitato al 3,67 per cento, migliaia di centrifughe disattivate o smantellate e ispezioni complete e intrusive da parte dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica dell’ONU.
Quella stessa AIEA che poco prima del recente attacco israeliano però aveva ammesso (per la prima volta in vent’anni): l’Iran non dava trasparenza e non stava rispettando i suoi obblighi sulla non proliferazione nucleare. Praticamente dando una sorta di la agli attacchi israeliani.
Per quanto riguarda, infine, la speranza di Bibi Netanyahu di incentivare con le bombe un rovesciamento di regime a Teheran, va detto che l’esportazione di “liberaldemocrazia”, o in generale il tentativo di condizionare il futuro politico, amministrativo, culturale di un Paese è quantomeno incerta e rischiosa, anche al netto di considerazioni etiche.
Gli esempi del passato sono tutti negativi, e vedono anche l’America sconfitta e disillusa in buone porzioni di mondo. Nel caso dell’Iran, in più, si innestano i credo religiosi, così permeanti da aver soppresso negli anni anche le proteste di donne e studenti, pur motivati ad una resistenza civile anche al prezzo della vita.
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