L'inverno demografico pone una sfida importante al sistema del welfare e quello economico cui occorre rispondere
Si sa che l’inverno demografico che caratterizza questi anni italiani avrà un impatto su molti aspetti sociali. In Parlamento si è insediata da tempo una Commissione parlamentare di inchiesta sugli effetti economici e sociali derivanti dalla transizione demografica. Siamo ancora all’avvio dei lavori ed è rilevante il quadro di dati e previsioni fornito dall’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb).
Nell’audizione della Presidente sono stati illustrati i risultati di uno studio finalizzato a valutare gli effetti della transizione demografica sulla finanza pubblica. L’invecchiamento della popolazione avrà sicuramente effetti sulla spesa pensionistica, sanitaria e per l’assistenza agli anziani con effetti sul nostro debito pubblico rispetto all’andamento del Pil.
È del tutto intuitivo come la crescita del numero di anziani dovuto al crescere dell’età della generazione numerosa dei baby boomers e la diminuzione relativa della popolazione compresa nelle fasce di età inferiori ai 60 anni abbia impatti sul nostro sistema di welfare. L’allungarsi della vita media porta a una domanda di cure e di assistenza diversa e maggiore rispetto ai servizi e alle strutture attuali. Il tema va affrontato per ragioni di adeguamento dei servizi e per ottimizzare l’efficacia della spesa.
Più forte l’impatto sul sistema pensionistico. Dato il modello a ripartizione di fatto le pensioni in ogni momento sono pagate dal versamento di chi in quel momento lavora. Se in futuro il numero dei lavoratori scenderà rispetto a quello dei pensionati rischiamo di avere uno squilibrio strutturale da affrontare per non lasciare senza pensioni dignitose le attuali giovani generazioni.
Il nostro sistema di welfare deve molto alla contribuzione versata da chi lavora, oltre a una quota finanziata dalla fiscalità generale (non apriamo qui il tema che sono soprattutto i lavoratori sopra i 35mila euro di reddito i principali contribuenti nazionali).
Per questo le analisi sul mercato del lavoro presentate dall’Upb ci mostrano quali interventi sono necessari per attenuare gli effetti del calo della popolazione.
Primo tema è quello delle migrazioni. Avremo bisogno di significativi flussi di immigrazione per rispondere al deficit di competenze. Per questo servirà intervenire, diversamente da quanto fatto finora per avere flussi mirati e organizzati favorendo la copertura di figure professionali da noi scarse.
Fra i flussi migratori dobbiamo però affrontare anche la ripresa di migrazioni interne. Sono sopratutto dalle aree interne del Mezzogiorno verso il Nord. L’effetto è quello di avere aree di spopolamento con poi bassa presenza di servizi e un degrado sociale di molte aree del Paese.
Vediamo però se possiamo individuare anche risposte partendo dalle nostre forze. Oggi abbiamo come effetto dovuto all’andamento demografico che l’aumento dell’occupazione porta ad un crescente peso degli ultracinquantenni sulla popolazione lavorativa.
Il dato impressionante è che la crescita del tasso di occupazione (+3,8% nell’ultimo ventennio) è largamente dovuto alla crescita del numero di lavoratori compresi fra 50 e 65 anni, oltre a un contributo minore dovuto alle lavoratrici con 35-49 anni. Il contributo delle generazioni più giovani è stato addirittura negativo.
Questo dato ci indica però una possibile strada di intervento. Tale aumento non è solo per lo slittamento in avanti col tempo di generazioni più numerose. Fra le classi di età più anziane è cresciuto il tasso di partecipazione all’attività lavorativa. E tale incremento ha interessato sia la componente maschile che quella femminile.
In numeri assoluti in Italia registriamo 12 milioni di persone fra i 15 e i 64 anni (al netto degli studenti) che risultano inattivi. Nonostante la crescita dell’occupazione che registriamo ogni trimestre dal dopo pandemia, abbiamo ancora molto spazio per assorbire una quota di popolazione che potrebbe dare un contributo lavorativo.
Due terzi degli inattivi sono donne. Interventi sui servizi di sostegno famigliare sono determinanti per poter avviare politiche che favoriscano la disponibilità a mettersi in gioco.
Secondo aspetto che emerge dai dati presentati è il basso livello di formazione di quanti restano inattivi. È l’ulteriore prova che il sistema messo in piedi per i servizi di politica attiva del lavoro non risponde alla situazione del Paese. Più di interventi a pioggia legati a bandi regionali e fondi europei abbiamo bisogno di creare una forte struttura di orientamento e formazione presente su tutto il territorio nazionale che svolga con continuità, assieme alle Agenzie per il lavoro, un programma rivolto ad accompagnare all’occupazione quanti altrimenti rimangono inattivi.
Intervenire sulla formazione è comunque un impegno imprescindibile. Oggi noi registriamo che solo il 12% dei disoccupati frequenta percorsi formativi. In Francia si sfiora il 30%. Fra i nostri giovani 18-24 anni il 70% si sta formando mentre la media Ue è quasi 10 punti sopra. E oltre 10 punti di differenza li registriamo anche nella formazione per adulti.
Le analisi presentate dall’Upb portano poi a una riflessione importante per orientare la politica industriale del Paese. Sostenere gli impegni per aumentare il tasso di partecipazione e finalizzare fondi per investimenti nell’innovazione dell’insieme del sistema economico nazionale è determinante per sostenere lo sviluppo e l’incremento della produttività di tutti i fattori della produzione.
Messaggio chiaro per chi vuol capire. Un modello di sviluppo basato su bassi investimenti e poca innovazione in servizi e Pa che si avvale di lavoro con bassa formazione e bassi salari ci porterebbe al declino economico. C’è bisogno di dare più dignità al lavoro e più innovazione a tutto il sistema produttivo se vogliamo uno sviluppo economicamente, socialmente e ambientalmente sostenibile.
È la premessa indispensabile anche per guardare con fiducia alla riduzione del del deficit pubblico.
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