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Home » Cultura » Letture e Recensioni » LETTURE/ Pico della Mirandola, il “miracolo” dell’uomo ci parla (ancora) di Dio

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LETTURE/ Pico della Mirandola, il “miracolo” dell’uomo ci parla (ancora) di Dio

Danilo Zardin
Pubblicato 1 Agosto 2025 - Aggiornato 14 Agosto 2025 ore 19:38
Peter Paul Ruben, Ritratto di Pico della Mirandola, particolare

Peter Paul Ruben, Ritratto di Pico della Mirandola, particolare

L’orazione sulla “dignità dell’uomo" di Pico della Mirandola (1486) è davvero il momento sorgivo di un Rinascimento ostile alla tradizione? (1) 

La cultura del Rinascimento ha trovato uno dei suoi centri fondamentali di sviluppo nell’immagine di persona umana veicolata attraverso i testi e le espressioni artistiche.

La novità di un antropocentrismo radicalmente ottimistico (ma cercheremo di mostrare che l’etichetta è, in sé, abusiva) è stata tradizionalmente esaltata come il contrassegno di un cambiamento profondo di mentalità.


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Per valutarne il peso effettivo, può essere utile partire da una verifica diretta sullo scritto in cui spesso si è creduto di poter individuare l’emblema della svolta che si sarebbe verificata: l’orazione sulla “dignità dell’uomo” di Giovanni Pico della Mirandola.

Si tratta della solenne prolusione alle novecento tesi filosofiche o conclusiones da lui redatte nel 1486, in vista di una disputa accademica che avrebbe dovuto svolgersi nella Roma papale, alla presenza delle alte autorità che occupavano le posizioni di maggior prestigio in vetta alla gerarchia della Chiesa.


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Confrontandosi con loro e con i collaboratori o segretari umanisti che li affiancavano, il giovane filosofo proveniente dalle corti signorili del Nord Italia desiderava esporsi in primo piano e affermarsi come uomo di punta di una cultura in fermento, attraversata da grandi spinte di revisione del sapere.

Come è doveroso in ogni lettura rispettosa dei significati racchiusi in un documento intellettuale che si prenda in esame, cominciamo dall’esordio del testo. Vi riconosciamo subito i tratti tipici di una logica di approccio ai problemi che si incentra sulla forza evocativa di sentenze memorabili riprese da fonti preesistenti, sfruttate come segnali indicatori semplicemente da assecondare con piena fiducia.


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“Magnum miraculum est homo”: è questo il “detto famoso”, di una evidenza lapidaria, davanti a cui si viene posti per introdursi nel tema. La frase è messa in bocca a “Mercurio”, il che la identifica come una citazione prelevata dal corpus degli antichi scritti mistico-religiosi di età imperiale romana, attribuiti al mitico Hermes o Mercurio Trismegisto: appunto, il Corpus Hermeticum, risalente al II-III secolo.

Il generoso encomio della grandezza della natura umana fa da contrappunto all’identica opinione di Abdallah “saraceno”, da cui l’oratio prende avvio nella sua prima riga: “Ho letto, molto venerabili Padri, nelle fonti degli arabi [siamo di nuovo rimandati a tradizioni anteriori, o comunque decisamente esterne rispetto all’orizzonte cristiano] che Abdallah saraceno, interrogato su che cosa, in questa scena del mondo, scorgesse di sommamente mirabile, rispose che non scorgeva nulla di più mirabile dell’uomo”.

Proseguendo nel discorso (§ 2), Pico fa un importante passo in avanti. Rileva che da parte di “molti” erano state addotte svariati argomenti “circa l’eccellenza della natura umana”, precisamente sul valore dell’uomo come anello di congiunzione, che sta in mezzo, al livello supremo nell’edificio della creazione, “sovrano sulle [creature] inferiori” e, nello stesso tempo, “familiare alle superiori”: “interstizio tra la fissità dell’eterno e il flusso del tempo e, come dicono i persiani [altro rimando a filoni extracristiani del pensiero religioso], copula del mondo”, “rispetto agli angeli (ne dà testimonianza Davide) solo un poco inferiore”.

Qui ci addentriamo ormai nei clichés che sono alla base della costruzione del ragionamento di Pico. Come si vede, siamo nettamente agli antipodi di ogni linguaggio filosofico secolarizzato. L’immagine proposta è filtrata dalle griglie di una tradizione sincretista, che attinge a una pluralità ostentata di fonti di ispirazione. Ma sono fonti che veicolano una sapienza aperta alla totalità religiosa del reale, all’interno delle quali rimane saldo il primato riconosciuto al patrimonio ebraico-cristiano, accostato a partire dal Grande Codice della scrittura biblica.

Già il paragone dell’uomo con la statura sovraeminente degli angeli, appoggiato alla menzione del re Davide, è per esempio cifra esplicita di rinvio al libro dei Salmi. Rilancia alla lettera il paradosso evocato in termini memorabili dal salmo 8: “Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi, e il figlio dell’uomo perché te ne curi? Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato…”.

Questo è solo un primo indizio del fatto che se si va alla ricerca del fondamento su cui si regge l’apologia del valore superiore della persona umana, che legittima l’affermazione del suo statuto di dignità assolutamente unica nel mondo, tale fondamento consiste in un fondamento teologico.

Lo sfondo da cui emerge la visione di Pico è chiarito in termini più diffusi nel paragrafo 4 dell’orazione. L’autore lo riconduce senza la minima reticenza al processo di creazione di tutto ciò che esiste, portato avanti dal “sommo Padre, Dio architetto”.

Arrivato al culmine della sua opera, dispiegata dalle regioni “iperuranie” fino a quelle inferiori dell’universo con la loro esuberante molteplicità di specie viventi, il divino “artefice” avvertì il desiderio che “vi fosse qualcuno che sapesse apprezzare il significato di tanto lavoro, che sapesse amarne la bellezza e ammirarne la grandezza”.

“Perciò terminata ogni cosa, come attestano Mosè [nuovo rinvio dichiarato alle fonti bibliche] e Timeo [rimando alla tradizione filosofica platonica, nell’abbraccio eclettico delle concordanze che rafforzano i dati di verità proposti], [Dio] pensò alla fine di produrre l’uomo”.

Non c’era però più alcun “archetipo” a disposizione per “dare forma alla nuova progenie”: si era esaurita la serie dei modelli ideali escogitati dalla suprema intelligenza divina, fra cui sceglierne uno da “elargire in eredità al figlio”. “Tra i seggi di tutto il mondo”, in pratica, sostiene Pico, non era rimasto libero alcun luogo prefissato dove “potesse sedere il contemplatore dell’universo”: “tutto era ormai pieno”.

Per l’identità propria dell’uomo, non rimaneva altra alternativa che farlo venire all’essere secondo una “immagine non definita”, senza una “dimora certa”, predeterminata in modo vincolante ed esclusivo. L’uomo non poteva che essere creato libero e responsabile, unico fra tutti gli esseri viventi chiamato a plasmare con il suo “arbitrio” – parola di un peso enorme, destinata a suscitare contese di ciclopiche proporzioni nel seguito della storia dell’Occidente – il proprio “sembiante” e la propria “prerogativa peculiare”, cioè la propria natura ultima e il proprio destino, il proprio posto nell’economia complessiva della storia del mondo.

Si esigeva, in altre parole, che l’uomo non fosse costretto dentro “leggi dettate” in modo rigido dal sommo artefice, come era stato fino ad allora la regola generale per le realtà inferiori, prive di ogni intelligenza consapevole e di ogni almeno approssimativa parentela di somiglianza con Dio. L’unicità dell’uomo, elevato a un grado di altezza inimitabile ed eccezionale, è così ricondotta, nel linguaggio semi-mitologico di una filosofia cristianizzata pre-scientifica, alla libertà di scelta della persona in quanto essere creato con un timbro di distintivo privilegio.

Con la sua libertà, l’uomo può decidere di abbruttirsi e decadere, così, verso le forme più povere e precarie di esistenza animalesca. Oppure può puntare verso l’alto e nobilitarsi, sollevandosi a una pienezza di umanità che si traduce nell’avvicinamento alla fonte divina del tutto di cui l’uomo è solo una parte.

Il presupposto dell’intero discorso è una chiara opzione metafisica. Il mondo, e in esso l’uomo, non si sono fatti da sé: sono l’opera di un altro che li precede. La grandezza dell’uomo non sta nella rivendicazione di una presunta autonomia prometeica, bensì è inscritta nell’evidenza oggettiva di una dipendenza: sta dentro l’abbraccio del dialogo con l’architetto supremo, che ha strutturato l’ordine globale delle cose esistenti.

È a partire da qui che si istituisce l’osmosi tra l’immagine antropologica delineata da Pico e il contesto della tradizione biblico-cristiana che ne è il retroterra: il retroterra del pensiero che l’ha nutrita e resa possibile.

Alla base troviamo la grande cosmologia universale fiorita nella scia di una fede religiosa che, fin dai suoi primi passi, aveva saputo appropriarsi delle parole e dei concetti della sapienza della cultura antica, greca e latina, risalendo da qui alla scoperta della positività ultima della realtà, del suo destino di bene e della sua ragionevolezza; quindi anche, in modo speciale, della positività e della ragionevolezza di quella forma più elevata di essere che si poteva cogliere nell’essere umano, quel livello della realtà in cui la realtà approda alla coscienza di sé.

(1 – continua)

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