La traiettoria umana di Vincent van Gogh eccede i limiti della biografia e dell’arte. La sua coscienza, segnata dalla mancanza, è irriducibilmente religiosa
Massimo Cacciari e Giovanni Testori: un filosofo e uno scrittore e critico d’arte che scopriamo accomunati da uno sguardo affine e poco scolastico sul più popolare pittore della storia, Vincent Van Gogh.
Di Cacciari è appena uscito un volumetto che ripropone un testo pubblicato nel 1983 ampiamente rivisto (Van Gogh. Per un autoritratto, Morcelliana). Per quanto riguarda Testori è stata ritrovata la registrazione di una conferenza da lui tenuta nel 1988, nell’ambito di un importante convegno su arte e follia: il testo viene ora pubblicato nel volume che ne raccoglie gli atti a distanza di tanti anni.
Siamo di fronte a due letture affascinanti che partono da una consapevolezza condivisa: la figura di Van Gogh non è contenibile dentro una cornice storico-artistica, perché la sua parabola umana ed espressiva è contigua piuttosto alla sfera della profezia.
Sia Cacciari che Testori restituiscono molto peso a quella lunga stagione in cui Van Gogh, pur interessandosi all’arte, dato che il fratello e lo zio lavoravano in quel campo, pensava per sé ad un destino diverso. Vincent voleva mettersi sulle tracce del padre, pastore della Chiesa riformata olandese, di cui aveva una grandissima stima, come si evince in particolare da tante lettere degli anni 70.
Teneva anche dei sermoni, per quanto non avesse ancora il ruolo per farlo, nelle povere comunità che frequentava della campagna olandese. Cacciari ad inizio del suo libro ne cita uno tenuto nel 1876 ad Etten, che conosciamo perché Vincent lo aveva trascritto e inviato al fratello Theo.
Van Gogh in quel sermone faceva riferimento ad un quadro da lui visto e ammirato, un quadro che definisce “bellissimo” (oggi è conservato al museo a lui dedicato di Amsterdam). Nel quadro si vede un vasto paesaggio con in fondo un monte sul quale sorgeva una “città aureolata al sole del tramonto”. Lungo la strada camminava un pellegrino dall’aria stanca con tanta strada da fare.

Commentava Van Gogh in quel sermone: “Il pellegrino continua triste eppure esultante. Triste perché la meta è tanto lontana, esultante perché ‘sarò più vicino a te, Signore’”. Van Gogh è e sarà sempre nella sua vita quel pellegrino, consapevole che “bisogna combattere molte battaglie, bisogna soffrire molto dolore, bisogna pregare molte preghiere per raggiungere infine la pace” (sono sempre parole sue da quel sermone del 1876).
Diventando pittore Van Gogh non cambia, ma trova un’altra forma per affrontare quelle battaglie e pregare quelle preghiere. Scrive Cacciari che la sua via in quanto pittore “è quella di un’estrema icona, perché come i pittori di icone rivela, non dipinge”.
E poi ancora: “Van Gogh è come un pellegrino che attraversa la realtà come un mistico uscendo da se stesso, sperimentando il dramma di una tensione destinata a non trovare approdo”.
Testori dal canto suo, per far capire in quale orizzonte si muova il Van Gogh pittore, riprende un’affermazione contenuta in una lettera inviata alla sorella Willemien un paio di mesi prima di morire. Scrive l’artista: “Vorrei fare dei ritratti che alla gente, fra un secolo, appaiano come delle apparizioni”. Commenta Testori: “Van Gogh gioca con le parole ‘apparire’ e ‘apparizione’; vuole indicare qualche cosa che non si può cogliere e non si può schedare con gli stilemi né dell’arte né della critica”.
Ritratti come apparizioni: dipingendo quello dell’amico poeta Eugène Boch, Vincent aveva voluto raffigurare alle sue spalle l’infinito nella forma di un cielo stellato come segno distintivo del suo destino. La natura della sua pittura è una natura irriducibilmente religiosa, segnata dalla coscienza dolorosa di una mancanza che segna tutta la realtà. Per via di questa coscienza, scrive Cacciari, “Van Gogh rifiuta ogni ipotesi di accordo di sistemazione, di composizione pittorica che chiuda il discorso”.
Nel vocabolario del Van Gogh predicatore ricorreva quasi come un refrain la consapevolezza che l’uomo è straniero sulla terra: “la nostra vita è il viaggio di un pellegrino, siamo stranieri sulla terra”. Impariamo anche a guardarlo (e ad amarlo) come uno straniero al mondo dell’arte.
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