DATI ISTAT/ 26,8% di povertà assoluta, il regalo di 10 anni di liberismo senza regole

- Gianluigi Da Rold

A dieci anni dalla grande crisi finanziaria, oggi arrivano per l'Italia nuovi dati Istat sulla povertà. Che è in aumento, soprattutto tra ai minori. GIANLUIGI DA ROLD

borsa_milano_mercati_cattelan_dito_lapresse_2010 Il "dito" di Cattelan a Piazza Affari (LaPresse)

A dieci anni dalla grande crisi finanziaria, oggi arrivano per l’Italia nuovi dati Istat sulla povertà. Riportiamo il testo delle agenzie per non apparire troppo pessimisti e quindi disfattisti, se non addirittura populisti, secondo l’andazzo corrente dei vocabolari, scopiazzati persino da comunicati del Komintern staliniano.

Si dice che nel 2016 siano un milione e 619mila le famiglie residenti in condizione di povertà assoluta, nelle quali vivono 4 milioni e 742mila individui. Rispetto al 2015 si rileva una sostanziale stabilità della povertà assoluta in termini sia di famiglie sia di individui. Si deve aggiungere che l’incidenza della povertà assoluta sale al 26,8 dal 18,3 del 2015 tra le famiglie con tre o più figli minori, coinvolgendo, nel 2016, 137.771 famiglie e 814.402 individui; aumenta anche tra i minori, da 10,9 a 12,5 (un milione e 292mila).

Questo è lo stato del Paese, per quanto riguarda la povertà, a dieci anni dalla crisi. Ora, non si pretendeva  che il noto club della “notte degli Alesina viventi”, come Paul Krugman ha definito gli appartenenti all’élite dei commentatori economici del Corriere della Sera, di matrice bocconiana, riuscisse a confermare la profezia (stilata con una supponenza incredibile) fatta nell’agosto del 2007, e cioè che tutto si sarebbe risolto nel giro di 2 mesi e saremmo ritornati alle stelle. Ma che dopo dieci anni di esperimenti, di interventi, di immissioni di denaro pubblico (al di qua e al di là dell’Atlantico), di politica del rigore e di “bilanci a posto”, di prediche, di pareggi di bilancio messi in Costituzione, di colpe, per spese passate, che tra un po’ arriveranno a essere attribuite anche a Massimo D’Azeglio, si fosse quasi in condizioni peggiori, se non altro per il perdurare della crisi, lascia alquanto esterrefatti e disorientati.

Forse potrebbe sorgere un dubbio, come sta nascendo nella testa di molti economisti e sociologi: questo capitalismo, ritmato da una finanza demenziale e ottusa, anche se creativa e avida, con una concezione di banca da squilibrati, con regole di mercato “inviolabili”, con raffiche di privatizzazioni, è giunto al capolinea. E’ in uno stato comatoso e la sua caduta può prolungarsi per qualche tempo, ma alla fine questa caduta è destinata ad arrivare con la rovine economiche, sociali e politiche che lasceranno il segno.

I sempre noti ottimisti diranno che si è verificata una “promettente inversione di tendenza”, che i segni sono ritornati positivi, ma tutti sanno benissimo che la ripresa è stentata ovunque, che il meccanismo stesso della finanziarizzazione è tanto complesso e complicato che si potrebbe essere alla vigilia di una nuova botta tipo Lehman Brothers, che chissà dove ci porterebbe. 

Intanto si assiste, con una complessa, irritante e noiosa disanima dei dati mensili, a un conto algebrico che è quasi da paranoici. La realtà, nuda e cruda, è che questo meccanismo di liberismo senza regole ha creato delle differenze sociali che non si conoscevano da secoli.

Se si guarda, con un minimo di razionalità agli sforzi vani fatti in questi dieci anni, a cominciare dai poderosi interventi di denaro pubblico, si può convenire nel dire che siamo ormai vicino al momento in cui anche la Fed e la Bce dovranno tirare i remi in barca e assistere a un ulteriore probabile peggioramento della situazione. In sostanza, si potrebbe trovare delle metafore per ammettere che l’attuale assetto del capitalismo è fallito ed è da riconsiderare, da correggere profondamente, perché sta provocando sconquassi di ogni tipo, che solo “quelli che non vogliono vedere” non vedono.

Qui si ritorna a discorsi antichi e più volte affrontati in questi anni con una certa prudenza, soprattutto dai responsabili della svolta liberista e dai “convertiti” al liberismo della sinistra, proprio quella che aveva perso storicamente su tutti i fronti, non di certo da quella realmente riformista che aveva ritmato la rinascita dell’economia occidentale nell’ultimo dopoguerra.

In realtà, dopo la crisi del 1929, il capitalismo fu salvato da uomini come Keynes, Schumpeter e da politici come Franklin Delano Roosevelt. E’ possibile che il modello di intervento di quei grandi personaggi, che hanno salvato la libertà di mercato, non il “liberismo degli scemi” e la democrazia, sia superato e che occorra qualche cosa di innovativo. Ma in tutti i casi, occorrerà trovare una strada diversa da quella imposta oggi dai burocrati di tutto il pianeta nel nome del “mercato sopra tutto”.

Un grande analista economico e politico come Luigi Campiglio, docente di politica economica alla Cattolica di Milano, non ha dubbi sulla crisi strutturale, ormai, di questo capitalismo, sulla necessità di una riforma. 

Campiglio affonda il coltello nella piaga e mette in guardia non solo sulle diseguaglianze sociali che si sono create, ma “sulla grande concentrazione di potere finanziario che ormai è nelle mani di pochi. Diciamo di poche entità”. Spiega Campiglio: “Chiamiamole entità, corporation, fondi sovrani, fondi finanziari. Chiamateli come volete, ma il fatto è che mai nella storia del mondo si è assistito a una concentrazione di potere finanziario nelle mani di così poche persone. Ci sono entità che possono saldare i debiti di uno Stato in poche ore. E’ inutile nascondersi che questa grande concentrazione del potere può portare a rischi grandi di ogni tipo per il futuro”.

E a questo punto veniamo alla parte più critica, ai riflessi che la struttura economica alla fine crea inevitabilmente sulla sovrastruttura sociale ed politica. Discorso troppo marxiano? C’è un’interpretazione marxiana della storia che può essere anche discutibile, ma non c’è dubbio che i grandi rivolgimenti sociali, in ogni epoca, siano partiti da squilibri e diseguaglianze sociali intollerabili.

Non è forse un segno che la disaffezione alla politica, la “fuga dalle urne”, in differenti modi ma con una tendenza transnazionale, sia dipesa dal ruolo predominante della finanza che sembra dettare i tempi della politica? Forse nessuno lo dice con grande chiarezza, ma si nota un po’ ovunque una crescente sfiducia, non solo nelle cosiddette istituzioni democratiche, ma nei principi della democrazia rappresentativa. Fino a che punto arriva questa “seminagione” di sfiducia nei principi della democrazia? E qual è la richiesta di governi forti quando il potere è concentrato nelle mani di “illuminati”, pochi e ricchissimi?

Infine, quanto può reggere una stato di tale disagio sociale, di progressivo impoverimento di interi ceti e classi sociali, di marginalità e di non rappresentatività politica? 

Bisogna sempre fare attenzione alla “talpa” che scava sottoterra. Quando appare è già tardi e comincia un grande ballo infernale. Come è già successo in passato.





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