L’oscurità e la certezza dell’attesa

In questa stagione capita di prendere coscienza di un'ultima nostra solitudine. Ma questo vuoto non è altro che una grande, inestirpabile attesa

Il solstizio d’inverno porta con sé qualcosa di unico: la notte che invade tutto è quasi presagio di quella mortalità che ci accomuna e di cui spesso siamo dimentichi. La modernità, con le sue fiammelle elettriche e i suoi lustrini, sbeffeggia questo momento che, per lunghi secoli, ha caricato d’inquietudine il cuore dell’uomo: tornerà la luce? Ci sarà ancora il sole per le nostre vite? Sentiremo ancora il tepore della primavera?

Se per ognuno di noi queste domande possono apparire quasi ridicole, per intere generazioni niente come il sorgere stesso del sole è stato scontato. Noi non sappiamo che cosa accadrà, ma abbiamo ben chiaro che cosa abbiamo perso: gli amici, gli affetti, a volte i sogni. Tutto depone a farci prendere coscienza di un’ultima solitudine, di una domanda che niente di ciò che abbiamo costruito con le nostre mani, dalla famiglia al successo, dal potere alla compagnia, sembra poter mettere a tacere.

E questa domanda grida sfrontata all’universo, sfidando la sorte del pulviscolo che siamo, presumendo che il nostro cuore possa spingersi a parlare con le stelle. Capita ancora nelle notti migliori, quelle dove il cielo si mostra pieno di scintille come si rivelava decenni fa, che lo sguardo resti ferito dalla maestà della Via Lattea o dalla Cintura di Orione e che sia chiaro, senza altra evidenza che quella che si para davanti ai nostri occhi, che la vita non è tutta smarrimento, che la vita non è tutta domanda, che l’esistenza non sia in fondo un’agghiacciante solitudine. Cesare Pavese in un racconto breve chiamato Piscina feriale diceva che quello che noi avvertiamo come vuoto, come inestirpabile esigenza di compagnia, altro non è che attesa. Ed è su questa parola che si gioca la più grande differenza fra questa generazione e chi ci ha preceduto.

Per costoro, infinitamente meno dotti riguardo al cielo e all’astronomia, il tempo della notte – il tempo dell’inverno – non era angoscia, bensì attesa. L’oscurità, tutta l’oscurità del mondo, ridestava in loro la certezza di un’attesa. Di fronte ai figli che morivano a decine in ogni villaggio, di fronte alle malattie, alle menomazioni del fisico o all’infragilirsi delle relazioni sociali, ciò che sosteneva il loro inverno era l’attesa, la consapevolezza che tutto non finiva lì, ma c’era un’ultima parola ancora da dire, da ascoltare, da percepire. Di fronte ad una bara, come ad un matrimonio che si spezza o un peccato che segna per sempre la vita, l’ultima parola non è quello che è accaduto, ma qualcosa che deve ancora avvenire.

Tuttavia questa consapevolezza non era semplicemente figlia del cristianesimo: il senso religioso dell’uomo arriva in ultima istanza alle soglie della rivelazione, al confine – direbbe Platone – di una qualche parola rivelata di un Dio. Il cristianesimo, invece, introduce in quell’attesa un altro fatto tutt’altro che secondario: se c’è una cosa che colpisce dei Vangeli dell’Infanzia che raccontano la nascita di Gesù è che Dio deve intervenire un sacco di volte per orientare la libertà degli uomini. Egli sa di essersi totalmente consegnato alla libertà delle persone e sa che la libertà di ogni singolo uomo decide del destino dell’intero universo. Pensate che sarebbe di Gesù se Giuseppe voltasse le spalle a Maria o se i Magi lavorassero davvero al soldo di Erode: la libertà di uno, di ognuno, è definitivamente decisiva per il cammino di tutti. È questo il motivo per cui i cristiani si confessano: non per mettersi la coscienza a posto, bensì per chiedere perdono a tutti se, con le loro azioni, hanno affaticato la strada di tutti.

Nella notte più buia conta dunque l’attesa di quel che deve ancora succedere, ma conta anche quello che ciascuno di noi fa, come ognuno si muove, che cosa uno sceglie e segue. Non è vero che possiamo fare quello che vogliamo: tutto quel che facciamo diventa strada, diventa cammino su cui poi ciascuno può verificare la bontà delle scelte fatte.

Stare nella notte non significa sognare la luce, ma abitare il tempo che ci è dato con la certezza che ogni nostro gesto può fare la rivoluzione. E che ogni rivoluzione, in fondo, attende sempre quel che deve ancora succedere. Quel che accadrà mentre gli uomini dormono. Quando, stanchi e spossati dal loro stesso clamore, lasceranno campo libero alla fantasia di Uno che sorprende sempre. E che accende luce anche dove l’inverno più duro sembra aver portato oscurità. Riaccende speranza nelle paure più tremende, nelle cause ormai perse, nelle tombe ormai chiuse. E davvero i nostri occhi, in fondo, non desiderano vedere altro che Lui all’opera. Lui che incredibilmente mantiene ciò che un giorno aveva promesso.

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