Ci consideriamo tutti vittime, in varia misura, del dolore provocato da un mondo che ci è stato portato via
Sbatte le palpebre e, quando riapre i suoi occhi chiari e vivaci, vedo il fantasma della paura aleggiarvi dentro. Era un politico potente e, cosa rara, anche un uomo di cultura. Il denaro non gli è mai interessato molto e ha accettato di essere rimosso dal potere senza eccessiva angoscia.
È sinceramente preoccupato per il futuro della Repubblica. C’è qualcosa nel presente che lo terrorizza: “Se dimentichiamo le leggi elementari della natura umana, siamo perduti”, mi confida socchiudendo gli occhi. Si considera vittima della storia: ha dedicato le sue migliori energie a difendere valori che sono crollati.
Finisco l’intervista e mangio con un caro amico che mi racconta della crisi che sta attraversando la sua famiglia. Si lamenta senza volerlo: tutta la sua storia è piena di “pensiero positivo”, ma ogni sua parola denuncia quanto il destino sia stato ingiusto con lui.
Provo le stesse cose del vecchio politico e del buon amico, come tutti. Ci consideriamo tutti vittime, in varia misura, del dolore provocato da un mondo che ci è stato portato via: non comprendiamo il pianeta su cui siamo atterrati. È una sorta di “radiazione cosmica di fondo”, simile a quella lasciata dall’esplosione iniziale nell’universo, che domina ogni cosa. Per noi, l’esplosione è una sfortuna, una mancanza, un sogno irrealizzato.
Avevamo un mondo in cui si poteva vivere prima che il cancro ci togliesse il respiro in infernali sedute di chemioterapia, prima che la palla nera della demenza ci toccasse, prima che gli amici ci tradissero o prima che li perdessimo nel modo più stupido, prima che cessassimo di essere apprezzati sul lavoro, prima che la mano gelida del potere abusasse di noi.
Avevamo una vita prima che la vita ci trasformasse in vittime. E ora il primo pensiero della giornata, il pensiero dominante per tutta la giornata, è ciò che abbiamo perso o ciò che non siamo riusciti a realizzare.

Non è un problema solo dei boomer, dei millennial o della Generazione Z: anche a vent’anni si può avere la sensazione che la vita sia stata ingiusta. Cerchiamo di consolarci, soprattutto se siamo religiosi. Ci diciamo che le cose non vanno poi così male, che ci sono soddisfazioni che compensano, che non tutto il male viene per nuocere. Ma il modo in cui ci sediamo, camminiamo o reagiamo a una lavastoviglie rotta tradisce la nostra mentalità vittimistica.
Ho letto un paio di interviste a Svetlana Alexievich, premio Nobel per la letteratura, e comprendo meglio questa condizione comune che tutti condividiamo in questo 2025 che volge al termine. Passare dal macro al micro e dal micro al macro è sempre utile.
Alexievich ha costruito grandi monumenti giornalistici nelle sue opere, dando voce a persone comuni che hanno vissuto eventi come il disastro di Chernobyl o la guerra in Afghanistan. Nel 2013 ha pubblicato una delle sue opere migliori: “Secondhand Time: The Last of the Soviets”, in cui ritrae lo smarrimento, il dolore e il disorientamento di decine di persone che credevano nel comunismo e nella grandezza dell’Unione Sovietica e che, da un giorno all’altro, sono diventate vittime di un capitalismo che le ha spogliate di tutto. Hanno perso il loro mondo.
Svetlana Alexievich affermò all’epoca che “l’uomo sovietico” era scomparso. Ora ha cambiato idea e sostiene che è ancora vivo e vegeto e che la “sindrome del mondo perduto” spiega non solo ciò che sta accadendo in Russia e Ucraina, ma anche ciò che sta accadendo negli Stati Uniti di Trump.
Ciò che è interessante di Alexievich, che sta scrivendo un nuovo libro, è che non nega il dolore. Ad esempio, il dolore di suo padre, che era un fervente comunista. Come lui, “le persone cercavano di aggrapparsi a qualcosa. All’inizio, alla religione. Poi, alla vita privata. Circa vent’anni fa, c’è stato un periodo di aperto cinismo. Oggi la situazione è diversa. Il cinismo ha lasciato il posto alla paura. E ora una persona sola può solamente cercare di aggrapparsi a un’altra persona”. L’autodifesa del gruppo o della coppia: un oceano di solitudine.
“Ma il dolore in sé”, afferma la giornalista bielorussa, “non è la cosa peggiore. Il problema è quando rendiamo culto a quel dolore. Quando l’attenzione è focalizzata solo sulla sofferenza. È una trappola. Il dolore non può essere ignorato, il punto è superarlo, il punto è il significato. Il dolore senza domande è un vicolo cieco”.
La giornalista fa una distinzione provocatoria: “Dobbiamo restituire alle persone non solo la verità, ma anche il significato. Questa è la funzione della letteratura”. Non basta una verità dichiarata, un’ideologia. La domanda decisiva è “di cosa sei fatto come essere umano”. La salute perduta, la dignità umiliata, un appartamento che non ti puoi permettere, il mondo che non capisci, le amicizie tradite sono un vicolo cieco se non c’è una domanda.
Gli occhi timorosi del vecchio politico e la droga del pensiero positivo del buon amico possono dissolversi come nebbia quando appare il coraggio della domanda.
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