L'intesa per il rinnovo del Ccnl dei metalmeccanici è una notizia importante e ricorda la responsabilità che hanno i sindacati
L’intesa per il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici – raggiunta fra Federmeccanica-Assistal e Fiom-Cgil, Fim-Cisl e Uilm dopo 17 mesi di negoziato – è una notizia importante, su molti versanti.
Progrediscono le retribuzioni negoziali e migliorano le tutele per 1,5 milioni di lavoratori dipendenti, in un settore che è ancora portante per l’industria dell’Azienda-Italia e dominante (assieme al terziario commerciale) nel disciplinare il mercato nazionale del lavoro.
I contenuti dell’accordo – imperniati su un aumento medio del 205 euro, superiore all’inflazione prevista per i prossimi 4 anni – saranno ora al vaglio dei lavoratori. Gli esperti stanno già sottolineando, fra l’altro, l’incremento dei cosiddetti “flexible benefit” e una maggiore protezione per dipendenti in staff leasing e per i portatori di disabilità o patologie oncologiche. Ma al centro di questa breve riflessione è di per sé la sigla dell’intesa: in una fase in cui la questione salariale e il ruolo delle organizzazioni sindacali sono tornate di forte attualità nel dibattito pubblico.
Salari e stipendi, dunque, in Italia possono aumentare: anche in una congiuntura economica debole, turbolenta e incerta. Le retribuzioni vengono incrementate in un settore privato per eccellenza, dopo aver conosciuto ritocchi contrattuali verso l’alto in importanti comparti pubblici (ultimo quello dei medici ospedalieri). Se la Pubblica amministrazione allargata è riuscita a scavare miglioramenti nel rispetto del parametro Ue del deficit/Pil, le imprese private hanno trovato margini fra l’inflazione sui ricavi e quella che, sulla colonna dei costi, continua a pesare in misura notevole alla voce energia.

Entrambe le parti al tavolo, comunque, sono sembrate scommettere sul futuro: volendo affrontare “in pace sindacale” anni nei quali la competitività dell’industria italiana sarà messa alla prova. Il nuovo contratto dei metalmeccanici sembra d’altronde confermare due “leggi” socioeconomiche proprie di una democrazia di mercato compiuta e matura.
La prima è che salari e stipendi si muovono sul mercato del lavoro, per iniziativa delle parti sociali. I redditi e il potere d’acquisto delle famiglie sono una questione politica, ma non è il Governo a poterne decidere la dinamica sul mercato del lavoro. La politica può e deve occuparsi del lavoro e dei suoi redditi, se necessario sedendosi al capo del tavolo delle parti sociali per facilitarne la dialettica. Ma non può imporre loro le scelte. Di qui una seconda “lezione”, neppure troppo implicita e per nulla laterale per l’Italia di fine 2025.
I salari e gli stipendi aumentano se al loro lato del tavolo le organizzazioni dei lavoratori siedono con totale ed esclusivo impegno nella loro “mission”. I sindacati – a differenza delle imprese – sono soggetti citati per nome nella Costituzione. Hanno una quindi una responsabilità primaria e inderogabile nello svolgere nel Sistema-Paese le funzioni che per loro sono state individuate e riconosciute il primo giorno di 77 anni di democrazia.
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