Dopo la bocciatura dei referendum sul lavoro sembra utile ragionare sulla validità odierna del Jobs Act che si voleva cancellare
La sovrastruttura politica costruita attorno a quattro quesiti referendari sul Jobs Act non può oscurarne l’esito oggettivo. La larga maggioranza degli italiani non ha aderito alla proposta dei promotori (anzitutto la Cgil) di abrogare parti importanti – rimaste in vigore – della riforma varata dal Governo Renzi fra il 2014 e il 2016. Dunque: gli italiani non appaiono convinti che i problemi dell’Italia odierna sul fronte dell’occupazione, della produttività del lavoro e dei redditi siano da attribuire alla novità introdotte dal Jobs Act.
Sono forse verosimilmente convinti che il tentativo di soluzione non possa essere più racchiusa in una legge nazionale (ciò che è probabilmente una delle tante facce della sfiducia crescente per il ruolo delle istituzioni democratiche elettive e nel governo politico del Paese). Se tuttavia prendiamo sulla parola puntuale il disinteresse di 7 italiani su 10 per un definitivo colpo di spugna al Jobs Act, non possiamo non ragionare sulla validità odierna di quella riforma: sulle sue guidelines strategiche più ancora che sulla sua strumentazione e sulla sua implementazione.
Quest’ultima è rimasta ampiamente sulla carta: prima per il successo di M5S al voto 2018 (con pronto rovesciamento del Jobs Act attraverso il cosiddetto “Decreto dignità”), ma poi soprattutto per la lunga fase emergenziale innescata dalla pandemia e tenuta accesa dai riflessi della crisi geopolitica. A maggior ragione può essere dunque utile recuperare – nel post-referendum – alcune premesse basilari del Jobs Act.
Il “lavoro” di quella riforma non era più il lavoro esistente di lavoratori da tutelare (come per lo Statuto dei lavoratori del 1970). Era, anzi resta molto più un lavoro che spesso non c’è ancora. Il lavoro domandato da imprese che – spesso lungi dal voler licenziare – non trovano figure professionali adatte; e offerto da non (ancora) occupati e disoccupati: a cominciare dai giovani “Neet”.
Il lavoro del Jobs Act resta oggi quello richiesto da un’Azienda-Paese in cerca di nuova competitività sull’arena globale. Un sistema-Italia a sua volta in concorrenza con altri sistemi-Paese nell’offrire opportunità ai giovani dotati di talenti e competenze.
Il lavoro cercato dal Jobs Act resta quello generato dal matching fra domanda e offerta su un mercato reso veramente tale dall’ingresso di agenzie private qualificate, in sinergia con un sistema di collocamento de-statalizzato e flessibilizzato dal più forte coinvolgimento delle Regioni.
Il lavoro del Jobs Act era e resta l’approdo – non definitivo – di un percorso formativo sempre più intenso e qualificato: in cui emerge come strategico il sistema educativo del Paese, il suo ruolo di produzione e manutenzione del capitale umano.
Il lavoro del Jobs Act era e resta quello che dovrebbe far compiere a imprese e lavoratori un salto collettivo nella produttività, da troppo tempo stagnante. E questa appare tuttora la via maestra per affrontare la vera emergenza socioeconomica nazionale: la caduta del potere d’acquisto dei redditi da lavoro. Soprattutto quelli dei più giovani.
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