Oggi al Teatro Lirico Gaber di Milano si terrà un evento per festeggiare i 25 anni di e-work, una delle principali agenzie italiane del lavoro
«Il mondo del lavoro sta vivendo una fase di cambiamenti molto accelerata e oggi per molte aziende la prima sfida è riuscire a mantenere persone e professionalità qualificate al proprio interno». Paolo Ferrario è presidente e amministratore delegato di e-work, una delle principali agenzie italiane del lavoro (nel 2024 ha raggiunto i 200 milioni di fatturato con presenze in espansione anche all’estero), che quest’anno taglia il traguardo dei 25 anni di vita.
Oggi a Milano, al Teatro Lirico Gaber, si ritroveranno in oltre 600 per festeggiare e concentrarsi sui nuovi obiettivi. «Oggi – spiega Ferrario – possiamo contare su oltre 200 professionisti impegnati ogni giorno a creare connessioni efficaci fra domanda e offerta di lavoro. E sono decine di migliaia le persone orientate, formate e avviate al lavoro ogni anno».
Come ha visto cambiare il mondo del lavoro in questi 25 anni?
Il mondo del lavoro è in evoluzione continua. Sicuramente il cambiamento più stravolgente, anche per la velocità con cui è avvenuto, lo abbiamo vissuto negli ultimi 5-6 anni, dalla pandemia in poi. Un evento così dirompente nella vita delle persone e dell’economia stessa ha generato delle reazioni sociali rispetto alle abitudini e alle aspettative del lavoro e anche all’esigenza del bilanciamento tra vita privata e lavoro, che probabilmente sarebbero arrivate comunque, ma che si sono verificate molto più velocemente. Un cambiamento che ha riguardato soprattutto abitudini e aspettative delle persone rispetto al lavoro molto diverse da quanto era successo in precedenza.
Questi cambiamenti così accelerati non ci hanno trovato sempre preparati. Per esempio, il fenomeno delle cosiddette “grandi dimissioni” ha messo in luce criticità prima non considerate. Come trovare un nuovo equilibrio?
Senz’altro sono emerse criticità che le aziende, gli imprenditori, noi stessi come operatori del mercato del lavoro, non eravamo pronti ad affrontare o che pensavamo di poter gestire con tempi più lunghi. Oggi se penso alle priorità di un imprenditore o di una direzione Human Resources, il tema centrale non è più tanto trovare le persone, ma mettere in campo tutti gli strumenti, le iniziative, le attività di branding reputation, di welfare che permettono di mantenere le persone il più a lungo possibile. Se una volta la priorità era trovare le risorse giuste, oggi è riuscire a trattenerle.
L’investimento in selezione e formazione sta diventando sempre più rilevante, e nello stesso tempo il turn over è aumentato e l’anzianità media all’interno delle aziende è diminuita, e quindi le imprese fanno di tutto per allungarla. Il tessuto imprenditoriale italiano, fatto soprattutto di piccole e medie imprese anche d’eccellenza, non era preparato a tale scenario. Negli ultimi tre anni gli imprenditori e le direzioni risorse umane si stanno perciò rapidamente adeguando a impostare un’azione continuativa di formazione, di orientamento e di welfare con i propri dipendenti.
Di conseguenza com’è cambiato anche il profilo di un’agenzia come e-work?
Siamo passati dall’essere la risposta per le necessità di manodopera stagionale, per i picchi di lavoro o per le attività più semplici da terziarizzare, al diventare un partner che aiuta le aziende a mantenere il rapporto con i propri dipendenti. Quindi, oggi non facciamo più semplicemente somministrazione di lavoro, ricerca e selezione, ma ci occupiamo di assessment, di welfare aziendale, di branding reputation, di campagne di reclutamento, seguiamo le attività di formazione sia professionale che motivazionale all’interno delle aziende.
Anche negli ultimi giorni è stato rilanciato l’allarme ricorrente sulla difficoltà a trovare figure professionali specializzate. Una situazione che mette in difficoltà soprattutto le aziende manifatturiere. Da dove cominciare per invertire tale tendenza?
È una difficoltà cronica che conosciamo da almeno un decennio e che riguarda in modo trasversale tutti i profili specialistici, ma anche, ed è la novità degli ultimi anni, attività più generiche per esempio nel mondo della logistica, dell’hospitality, della ristorazione. Sono tutti settori che lamentano un forte bisogno di risorse che non trovano. Rispetto al passato oggi è un po’ più complicato sostituire o innestare nuove figure, perché le persone hanno più disponibilità di scelte, magari più corrispondenti ai propri desiderata.
È chiaro che non c’è una risposta univoca, serve tanta formazione, tanta cultura, specie su alcune mansioni che vengono ritenute magari meno nobili o importanti. Poi deve crescere l’apporto degli Its e delle scuole professionali. È una risposta da costruire nel medio periodo, non certo dall’oggi al domani.
Il nodo insomma è sempre la formazione professionale…
Formazione professionale e orientamento dei giovani nelle scuole sono un percorso obbligato. Un percorso che, devo essere sincero, negli ultimi anni di governo sta avendo sollecitazioni molto importanti e che noi recepiamo ben volentieri. Nel nostro piccolo siamo quotidianamente nelle scuole con i nostri orientatori e selezionatori, con la nostra brand ambassador Martina Rabbolini che è un’atleta paralimpica, proprio per trasmettere ai ragazzi i valori della cultura del lavoro e dell’impegno.
Le statistiche danno un tasso di occupazione ai massimi storici, ma nel contempo cresce il malessere proprio nei confronti dell’ambiente lavorativo. Su cosa si può agire per superare tale contraddizione?
Credo si debba puntare sul coinvolgimento. Le persone oggi hanno aspettative più alte ed è forse anche giusto. In questi anni c’è stata un’accelerazione di certi processi e il mondo delle imprese non era ancora pronto a dare le risposte necessarie. Posso però assicurare, perché lo vivo ogni giorno facendo consulenza alle aziende, che queste si stanno organizzando per venire incontro alle nuove esigenze dei loro dipendenti, specie dei giovani.
Molte imprese da tanto tempo sono impegnate nelle forme più diverse a servizio del territorio in cui operano, ma non sono abituate a raccontarlo oppure l’hanno sempre visto come un’azione di marketing per la vendita di un prodotto. Invece anche questo rientra nella branding reputation, può servire per far capire a una persona che sta scegliendo un’azienda non solo per la retribuzione che gli può dare, ma anche per l’ambiente che è, per le aspettative di crescita che sa offrire, per quello fa per il tessuto sociale di cui è parte.
C’è da molti anni un problema di bassa crescita dei salari. Quanto incide questo elemento nel rapporto critico che molti hanno con il lavoro?
Non è determinante ma incide soprattutto sulle scelte dei giovani. In tantissimi continuano a guardare ancora tanto all’estero, e non solo ai soliti Paesi ma anche a posti più lontani. Muoversi è più semplice e si può lavorare molto da remoto. Anche qui però purtroppo è chiaro che imprese e operatori del mercato del lavoro possono fare ben poco. Soprattutto in questo caso sono necessari interventi normativi molto forti. Qualcosa è stato fatto, dobbiamo riconoscere quanto il Governo ha messo in atto, però servono altre misure come detassare in toto le premialità, le una tantum, tutto ciò che è meritocrazia retributiva. Questo potrebbe agevolare le ricerca e la stabilizzazione delle professionalità.
A proposito di interventi normativi, nei giorni scorsi è stata approvata la nuova legge sulla partecipazione dei lavoratori alla governance delle imprese. Potrebbe effettivamente cambiare qualcosa o per ora siamo solamente ai titoli?
Non siamo solamente ai titoli, questa legge è sulla strada giusta per contribuire a legare di più le persone a un percorso, a un progetto all’interno di un’azienda. Ora è importante fare tanta informazione e formazione, non lasciare soli né gli imprenditori, né i lavoratori perché siamo di fronte a un’ottima opportunità. Dove finora si è scelta questa strada anche se mancava ancora una legge, quasi sempre è stato un successo.
E-work è in grado di supportare aziende e lavoratori anche su questo fronte?
Siamo di fronte a una sfida del tutto nuova. Attraverso la nostra associazione di categoria abbiamo potuto dare il nostro apporto all’elaborazione della nuova normativa, portando il nostro valore aggiunto. Ci stiamo organizzando con i nostri professionisti per dare supporto alle aziende. Adesso però occorre portare nelle imprese questa nuova cultura. Ci aspettiamo che ci siano strumenti per aiutare a creare nuove competenze e anche fondi per formare sul coinvolgimento dei dipendenti nella gestione d’impresa.
In questi giorni si dibatte sul prossimo referendum che prevede alcuni quesiti che riguardano direttamente il mondo del lavoro. Non c’è il rischio di fare un passo indietro, di ritornare al passato?
Purtroppo sì. Andare oggi a parlare di motivazioni più stringenti per il tempo determinato o addirittura, uscendo dai temi referendari, di una retribuzione minima obbligatoria, vuol dire solo essere lontani dalla realtà del mercato del lavoro. Siamo infatti in una fase in cui l’impresa che trova un lavoratore professionalmente valido non ha nessuna esitazione a fargli un contratto di assunzione a tempo indeterminato.
Anche noi come agenzia abbiamo richieste molto più alte rispetto solo a due o tre anni fa di figure a tempo indeterminato che di contratti a termine. I lavoratori somministrati direttamente da noi a tempo indeterminato oggi sono un terzo del totale, dieci anni fa erano il 5%. È il mercato che ha dato queste garanzie. Mettere in discussione con il referendum risultati ormai acquisiti, con il dubbio che le persone non comprendano bene che cosa stanno andando a modificare, rischia probabilmente solo di far irrigidire alcuni pezzi di economia.
Invertire la direzione di marcia aperta dal Jobs Act a vostro giudizio sarebbe quindi un errore…
Senza dubbio. La flessibilità è un valore per le imprese e per l’economia. Purtroppo l’economia non è sempre stabile, è legata a quello che accade nel mondo, agli eventi bellici, ai dazi, a tanti fattori, però questo è normale. Sarebbe ipocrisia però pensare che un imprenditore non voglia fare impresa nel migliore dei modi e non voglia farlo pagando meglio e il più possibile le proprie risorse valide.
Ci indica tre sfide per il prossimo futuro di e-work?
Alcune sono sfide, altre sono cose belle che abbiamo deciso di fare. Parto da queste ultime. Siamo un’azienda che da sempre ha cercato di restituire qualcosa al territorio in ambito sociale. Da sempre siamo impegnati in progetti di inclusione, formazione e responsabilità sociale anche attraverso la Fondazione Pino Cova, nata per onorare la memoria del nostro fondatore. Con il nostro venticinquesimo abbiamo perciò voluto, oltre a tutte le attività che già oggi facciamo nell’ambito del supporto alle fasce deboli di popolazione, istituire un premio aziendale da oltre 250 mila euro a favore di associazioni operanti su tutto il territorio nazionale che si occupano di persone fragili – disabili, bambini, malati o altro.
Il secondo obiettivo è continuare a crescere negli investimenti che ci hanno fino a oggi restituito un buon posizionamento di mercato. In particolare con l’intelligenza artificiale stiamo sviluppando sistemi che vadano non a sostituire ma a integrare i processi di selezione fatti dai nostri professionisti. Oggi per i tempi che il mercato richiede, per le caratteristiche delle aspettative delle persone, velocizzare tutto il sistema di scouting, di selezione di proposte di lavoro o altro, permette di dare risposte più immediate sia alle persone che alle aziende.
L’ultima sfida riguarda la nostra presenza all’estero. Operiamo sempre di più in un mercato globale e lavorativamente parlando a 360°. Attualmente siamo presenti in Polonia e in Svizzera con agenzie per il lavoro autorizzate. L’obiettivo è allargarci anche in altri paesi europei come l’Austria e la Spagna.
C’è spazio per crescere?
Sì, per noi è fondamentale accrescere la nostra dimensione internazionale, non restando legati solo all’Italia che resta comunque centrale per tutti i nostri progetti.
L’intelligenza artificiale, che lei ha citato, viene guardata con preoccupazione per l’impatto negativo che potrebbe avere sull’occupazione…
In realtà fino a oggi è il contrario. Negli ambiti che ci hanno visto coinvolti stanno emergendo nuove professionalità che prima non esistevano, chiamate a occuparsi di intelligenza artificiale o della formazione in questo campo o del corretto utilizzo degli strumenti a disposizione. Le aziende stanno guardando con molta attenzione a quanto sta avvenendo. La nostra percezione, da osservatori privilegiati dei processi produttivi aziendali, è che non vi sia un intento di sostituire le persone con l’intelligenza artificiale, ma di performare grazie a questa per far crescere i volumi, la capacità di esportazione, la risposta che posso dare come azienda ai clienti. È normale che questo, anche per l’enfasi mediatica che c’è sul tema, possa un po’ spaventare.
In questo momento però non siamo preoccupati che l’intelligenza artificiale cancelli settori lavorativi o porti via posti di lavoro, ne sta invece creando di nuovi e c’è tanta formazione da fare.
(Piergiorgio Chiarini)
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