Si parla di 33 ostaggi, vivi o morti, liberati in una prima fase, contro mille detenuti palestinesi scarcerati, che però dovrebbero diventare complessivamente 3mila. Il cessate il fuoco a Gaza, la liberazione degli ostaggi e anche un programma per avviare trattative sul dopoguerra nella Striscia non sarebbero mai stati così vicini. Di fatto, tutte le parti in causa, Israele, Hamas, gli USA, il Qatar e l’Egitto, starebbero producendo il massimo sforzo per raggiungere un’intesa. Lo scenario, spiega Paola Caridi, saggista e presidente di Lettera 22, è cambiato con l’avvento di Trump, che ha esercitato su Netanyahu le pressioni che Biden ha sempre evitato, continuando invece a inviare armi per l’IDF. Il presidente eletto paga il debito con quella parte di elettorato (arabo ma non solo) che gli ha assegnato il voto con la promessa di chiudere la guerra a Gaza. Il premier israeliano, in attesa di una risposta ufficiale di Hamas, ha convocato un vertice d’urgenza del governo sulla sicurezza e si è detto pronto alla tregua, ma vuole la liberazione di tutti le persone sequestrate. Mentre Blinken preannuncia una gestione della Striscia da parte dell’ANP e dell’ONU.
Cosa è cambiato a Gaza perché almeno si torni a parlare della possibilità concreta di un accordo per il cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi?
Adesso c’è una novità, che è il cambio di amministrazione a Washington. Trump vuole insediarsi con la pace o, meglio, con il cessate il fuoco, mettendo nel dimenticatoio la guerra di Gaza almeno per un po’. È uno scacco a Biden, che questo accordo non l’ha mai voluto raggiungere sul serio, mentre Trump ha immediatamente fatto le pressioni necessarie su Netanyahu.
Trump ha minacciato di “scatenare l’inferno” se gli ostaggi non verranno rilasciati prima del suo arrivo. Segno che comunque è deciso ad andare fino in fondo?
Sì, anche se parla come se finora l’inferno a Gaza non ci fosse stato. Anzi, anche in queste ore sono aumentati gli attacchi a Deir el-Balah, che poi è la zona da cui trasmette Al Jazeera. Attacchi con droni kamikaze.
Perché c’è stato un cambio di passo fra le due amministrazioni USA?
Trump ha un prezzo da pagare a una parte del suo elettorato. Ha una posizione profondamente filo-destra israeliana, ma Biden si è dimostrato molto più filo-israeliano di lui, armando Israele in questi 15 mesi come non ha mai fatto nessun altro presidente statunitense.
Trump, attraverso il suocero Massad Boulos, aveva detto agli arabi del Michigan che avrebbe messo fine al conflitto nella Striscia. Ora deve mantenere la promessa?
Visto come si sono comportati alle elezioni USA non solo gli arabi del Michigan (Stato fondamentale per vincere), ma i neri protestanti, Trump ha un prezzo da pagare nei loro confronti. Le pressioni che ha esercitato attraverso Steve Witkoff, il suo inviato a Tel Aviv e a Doha, sono state molto più forti di quelle che ha mai esercitato Biden. Anche l’attuale tentativo del presidente uscente di portare a casa il cessate il fuoco è stato contraddittorio, visti gli 8 miliardi di dollari di armamenti che ha deciso di inviare a Israele non più tardi di due o tre settimane fa. Credo che a gestire questa trattativa, da parte americana, sia l’amministrazione che si sta insediando.
Netanyahu ha trovato qualcuno che parla il linguaggio giusto per convincerlo?
Esatto. Tanto è vero che per la prima volta è apparso a disagio rispetto a questo accordo, nel senso che non è riuscito a smontarlo, anche se non è detta l’ultima parola.
Hamas, intanto, sembra favorevole all’intesa. È così?
Hamas ha detto che accetta. Ha comunicato non di aver approvato il cessate il fuoco, ma di aver consultato tutte le parti della struttura, il che vuol dire che le consultazioni sono state estese a Gaza e anche a Mohamed Sinwar (fratello di Yahya).
Se l’accordo, come sembra, dovesse andare in porto, è a rischio la tenuta del governo Netanyahu, l’appoggio dell’estrema destra?
C’è una diversità di atteggiamenti tra Ben Gvir e Smotrich. Il primo ha detto: “Non possiamo essere soli a contrastare questo accordo”, affermando di essere sempre riuscito finora a bloccare qualsiasi intesa e confermando così che era proprio Israele a non volere accordarsi. Probabilmente Smotrich ha una posizione diversa: è governatore di fatto della Cisgiordania, se rimarrà nel governo, accettando l’accordo, significa che proprio in Cisgiordania ne vedremo delle “bruttissime”.
Il premier israeliano ha ancora bisogno di loro?
L’opposizione, sia Benny Gantz, sia Yair Lapid, gli ha già offerto la rete di protezione per poter andare avanti con l’accordo. Tocca a Netanyahu decidere se si vuole giocare il rapporto con Trump già all’inizio della presidenza. Mi sembra un po’ strano che lo faccia. Per questo l’umore che si coglie un po’ da molte parti è che stavolta sia la volta buona per raggiungere l’accordo.
Ci sono dei segnali che fanno pensare vicino l’accordo?
Stanno smobilitando, così sembra, dalla parte del Corridoio Netzarim, e negli istituti penitenziari israeliani si starebbero preparando per il rilascio di alcuni prigionieri. Si sa che la moglie di Marwan Barghouti (leader palestinese in carcere, nda) è andata a Doha, anche se non si è capito se lo ha fatto perché vuole parlare con qualcuno o se è stata invitata ad andarci. Un altro punto interrogativo riguarda il numero alto, secondo me fin troppo, di detenuti palestinesi che dovrebbero essere scambiati nelle tre fasi del cessato del fuoco, la prima di 42 giorni, la seconda sempre di 42 giorni e poi una terza.
Quanti saranno?
In tutto dovrebbero essere 3mila, un terzo di coloro che sono nelle carceri israeliane. Un numero riferito da Qadura Fares, che non è di Hamas, ma fa parte dell’ente di Ramallah che si occupa degli affari dei detenuti. È lui a dire, per esempio, che tra le persone da liberare dovrebbero esserci tra i 150 e i 200 detenuti con sentenza definitiva, con ergastoli sulla testa. È questo il motivo di fondo che dà ragione a Ben Gvir, quando sostiene che questo accordo è una sconfitta. C’è l’ipotesi di lasciar andare anche Marwan Barghouti, cioè di liberare alcuni di coloro che gli israeliani non hanno mai voluto scarcerare. Anche per questo bisogna chiedersi quale sarà il futuro di Netanyahu.
Al giorno numero 16 del cessate il fuoco dovrebbe scattare una trattativa. Si comincerà a parlare di pace?
Anche qui sorgono una serie di punti interrogativi, tant’è che l’unico cessato il fuoco che si è realizzato si è impantanato proprio sulla fase due. Credo che se ci sono due fasi certe, però, è perché corrispondono ai primi cento giorni della presidenza Trump, in cui dovrà occuparsi del Medio Oriente, dell’Ucraina, pagando, appunto, alcuni debiti della campagna elettorale. Ha bisogno che almeno su Gaza non si spari.
Ma questo accordo, alla fine, è davvero così vicino?
Al Jazeera racconta che a Doha ci sono tutti: il capo del Mossad, il capo dello Shin Bet, gli egiziani, i qatarini, gli USA, rappresentati dall’amministrazione uscente e da quella che entrerà in carica a giorni. Potrebbe essere fatto presto, ma dobbiamo essere aperti a qualsiasi eventualità. Anche se qualcuno sostiene che Netanyahu vuole tirarla per le lunghe aspettando fino al giorno prima dell’insediamento di Trump. Ma ho l’impressione che adesso non possa tirare la corda più di tanto. Infine c’è anche un’altra domanda da farsi, che riguarda l’Italia.
Il nostro Paese sta avendo un suo ruolo in tutto questo?
Dobbiamo chiederci perché si trova in Italia il generale israeliano Ghassan Alian, capo del Cogat (Coordination of Government Activities in the Territories, nda), l’organismo che ha gestito l’ingresso delle merci, aiuti umanitari compresi, nei territori palestinesi, soprattutto a Gaza. Lo stesso ente che dieci anni fa aveva stabilito che nella Striscia dovevano entrare poco più di 2.000 calorie a persona. Non dobbiamo chiederci solo se lo arresteranno, come ha chiesto la Fondazione Hind Rajab, ma perché è qui, chi ha incontrato e per quale motivo. Secondo me ha a che fare con l’accordo sul cessate il fuoco.
(Paolo Rossetti)
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