Ci deve essere una ragione per cui oggi gli americani ritornano continuamente e con insistenza a uno dei momenti fondamentali della loro, pur breve, storia: la conquista del West tra gli anni ’40 e gli anni ’80 dell’Ottocento. Sicuramente, la spinta principale proviene da un diffuso revisionismo storico che ha di fatto smantellato tutto ciò che si era raccontato per decenni e che, tra l’altro, aveva tenuto incollati i nostri nonni ai grandi schermi in cinemascope. L’epopea dell’uomo bianco che civilizzava il selvaggio West era – e ora ne siamo certi – una colossale menzogna. Tuttavia, in quella storia così poco conosciuta, perché volutamente nascosta, si trova una parte importante dello spirito profondo di quel Paese, fondato su un’idea di libertà che coincide sostanzialmente con l’individuo, il diritto a fare qualsiasi cosa per migliorare la propria esistenza e la violenza come unica arma per affrontare una natura troppo grande e ostile e regolare la convivenza con gli altri, così diversi tra loro.
Un nuovo capitolo di questa rilettura del “mito americano” con American Primeval è rappresentato dalla miniserie American Primeval, una bellissima produzione in sei episodi scritta da Mark L. Smith e diretta da Peter Berg per Netflix.
Gran parte di ciò che si racconta in American Primeval è realmente accaduto nell’autunno del 1857, nello Stato dello Utah, periferia occidentale degli Stati Uniti e snodo per tutte le carovane dirette sia verso Sud, in California, che negli altri territori verso il Pacifico del nord. Da oltre 10 anni, in quella parte del Nord America si erano insediate comunità di mormoni, che fondarono la città di Salt Lake. I mormoni erano apertamente ostili al Governo degli Stati Uniti, praticavano la poligamia, razziavano le persone di colore e decimavano le innocue comunità di nativi che cercavano di vivere sulle terre che possedevano da secoli.
Famoso capo della comunità mormone era Brigham Young (interpretato da Kim Coates), un uomo spietato, con ben 55 mogli, e perfettamente consapevole del potere derivante dall’infatuazione religiosa dei suoi seguaci. Young decide di aprire le ostilità per il controllo totale dello Utah inscenando un massacro di coloni e cercando di far ricadere la colpa sulle ignare tribù dei nativi. Una carovana di 120 persone, tra cui donne e bambini, viene trucidata il 14 settembre 1857 dall’esercito irregolare di Young travestito da indiani. Il massacro di Mountain Meadows – così è ancora oggi ricordato – diede inizio a uno scontro tra l’esercito regolare degli Stati Uniti, le tribù dei nativi e i mormoni. Fu una guerra senza esclusioni di colpi.
La storia narrata in American Primeval, però, è più intima e riguarda la vicenda di una donna, Sara Rowell, e di suo figlio Devin, che proprio in quei giorni decidono di attraversare quelle terre inospitali per raggiungere il marito in Oregon. Come guida ottengono Isaac, un uomo solitario e silenzioso che, pur sconsigliando in ogni modo di proseguire nell’impresa, accetta l’incarico. Dovranno superare prove terribili, attraversando in pieno inverno territori ostili, mentre il conflitto di tutti contro tutti si infiamma.
American Primeval colpisce per l’eccezionale ricostruzione storica, la precisa rappresentazione della durezza delle condizioni di vita a cui erano costretti gli uomini del tempo e la violenza senza limiti a cui può giungere il genere umano quando lotta per la sopravvivenza. Eppure, tra i protagonisti non si spezza mai il filo del disperato bisogno di avere un futuro, che spesso coincide con una meta, un luogo che neanche si conosce. Nel nostro caso, sarà il mare e la California, che sembrano, ieri come oggi, rappresentare per gli americani l’orizzonte più desiderato.
Grandi interpretazioni da parte di Shea Whigham nei panni di Jim Bridger, l’avventuriero realmente esistito che fondò Fort Bridger, l’ultimo avamposto prima del nulla; Betty Gilpin (la Debbie di Glow), che interpreta la tenace e resistente Sara; e Taylor Kitsch, attore canadese, nel ruolo della guida Isaac.
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