Il clamoroso ritrovamento della “Deposizione” di Andrea Mantegna è l’inatteso lieto fine di un giallo artistico che attraversa alcuni secoli

La gran festa tributata al recente recupero della Deposizione di Andrea Mantegna, opera creduta persa, riecheggia molto umanamente la gioia evangelica per la pecorella smarrita e poi ritrovata. Un ritorno inatteso all’ovile del patrimonio pubblico italiano in cui si mescolano coincidenze e capacità, enigmi e fatiche e soprattutto collaborazioni.



Va dato atto alla civiltà digitale, con la sua connettività praticamente sconfinata, di aver reso possibile l’individuazione, sul portale-inventario (BeWeb) dei Beni artistico-storici della Conferenza episcopale italiana, di questo malconcio dipinto della diocesi di Pompei e va data lode all’intuito dello studioso Stefano De Mieri d’aver subito ipotizzato che si trattasse dell’opera di Mantegna documentata a Napoli nella Basilica di san Domenico Maggiore e poi sparita nel nulla per secoli.



La scarsa leggibilità del dipinto, severamente danneggiato, e l’assenza di documenti che comprovassero il trasferimento da Napoli a Pompei hanno costretto alla cautela generale, ma gli approfonditi riscontri storico-artistici, le accurate indagini diagnostiche e il certosino restauro – il tutto opera dei Musei Vaticani e dei suoi Laboratori – hanno dato infine il responso sperato, incontrovertibilmente positivo: è la Deposizione di Andrea Mantegna. Ed è un dipinto bello!

La scena, orizzontale, ritrae il corpo senza vita di Gesù disteso col capo reclinato sulla spalla destra, sorretto da due personaggi inturbantati all’orientale, come si usava allora, identificabili con Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo, attorniati da altre cinque figure dolenti, tra cui l’affranta Madre con le mani giunte e il capo chino sul Figlio esanime, come risucchiata in un cono di dolorosa e insondabile ombra; Maria Maddalena con il suo tipico pathos espressivo, il volto rigato di lacrime, le mani alzate e, singolare dettaglio per Pompei, un rosario con grani di corallo e un ciondolo di cristallo di rocca avvolto nel palmo della mano destra; e san Giovanni afflitto, di profilo.



Il pietoso ufficio della sepoltura di Cristo avviene su uno sfondo tipicamente mantegnesco, con la città di Gerusalemme brulicante di edifici classici e rinascimentali.

Mentre si continuano a scartabellare archivi e documenti per capire come mai il dipinto inabissatosi a Napoli sia riemerso a Pompei, non si riesce a evitare il pensiero che il Santuario mariano campano – il cui fondatore Bartolo Longo è peraltro appena entrato nel novero dei santi – è legato indissolubilmente a un altro quadro sacro, quello oggi veneratissimo della Beata Vergine del Rosario, arrivato anch’esso a Pompei da Napoli, dal convento di san Domenico Maggiore di cui era priore padre Alberto Radente, diventato poi primo Rettore del Santuario di Pompei.

Sta’ a vedere che proprio l’elemento del rosario, presente nella tela quattrocentesca, magari giudicata di scarso valore (come l’altra, d’altronde, che aveva viaggiato addirittura su un carro di letame), ha indotto padre Alberto a portare con sé questa altra “crosta” ora rivelatasi un tesoro prezioso… Altra dettaglio degno di nota: entrambi i dipinti sono stati ricoverati, in tempi diversi, presso i laboratori di restauro dei Musei Vaticani per riguadagnare lo stato di salute.

Come sempre accade quando si accendono i riflettori su un’opera (tanto più se essa è rilevante), gli esperti si eccitano e così ecco che le ricerche di Andrea Zezza inducono a ritenere che la Deposizione sia stata commissionata nell’ultimo decennio del Quattrocento all’artista padovano da Federico d’Aragona per onorare, nell’area absidale di san Domenico, le sepolture dei suoi antenati. Poi un rovinoso incendio della Basilica (1506) avrebbe causato la dispersione dei vari dipinti lì convenuti.

La “caccia” al Mantegna disperso si è scatenata successivamente anche nei felpati laboratori dei Musei Vaticani e soprattutto in quello dove s’è svolto il restauro, coordinato da Francesca Persegati ed eseguito certosinamente da Lorenza D’Alessandro e Giorgio Capriotti: ripulire dal recto le sovrammissioni di vernici e asportare dal verso le varie foderature che avevano in parte penetrato a schegge la tela è stata una risalita paziente, laboriosa e via via sempre più entusiasmante al Mantegna sorgivo. E le tante ore diventate mesi di faccia a faccia col dipinto hanno permesso anche di riscontrare gli effetti della fascinazione del pittore del Nord per il suo geometrizzante collega toscano Piero della Francesca e il suo sodale fra Luca Pacioli: la divina proportione dei volumi, che conferisce al quadro un accentuato equilibrio interno.

Esposta nella Pinacoteca Vaticana da fine marzo per pochi mesi, prima di tornare sanata e acclamata al Santuario di Pompei, questa Deposizione è vivido richiamo a un momento commovente della Via Crucis di Cristo ma anche, grazie alla sua inattesa riemersione dal Limbo dei quadri perduti, pasquale segno di Resurrezione.

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