È divenuto un’icona, questo dipinto di Edvard Munch, il pittore svedese geniale interprete del disagio contemporaneo: antesignano dell’avanguardia espressionista in Europa, ha saputo condensare, nel gesto di scomposto terrore del protagonista, quel sentimento che così frequentemente opprime e domina le tormentate personalità che abitano il nostro tempo.
Non sembra all’apparenza giustificarsi questo urlo che dilaga, incontenibile, come l’eco di un primordiale big bang nella vastità dello spazio circostante modificandone i contorni e alterandone le dimensioni.
Che cosa – viene da chiedersi – può avere prodotto nel solitario personaggio in primo piano, quell’abnorme reazione i cui toni apocalittici si riverberano in ogni pennellata che l’artista ha grossolanamente disteso sulla tela utilizzando colori e forme del tutto improbabili?
È lo stesso Munch a venirci in soccorso con una pagina del suo diario nella quale descrive l’esperienza drammatica che ha originato il dipinto: “Era il periodo in cui la vita aveva ridotto a brandelli la mia anima. Il sole calava – si era immerso fiammeggiando sotto l’orizzonte. Sembrava una spada infuocata di sangue che tagliasse la volta celeste. Il cielo era di sangue – sezionato in strisce di fuoco – le pareti rocciose infondevano un blu profondo al fiordo – scolorandolo in azzurro freddo, giallo e rosso”.
Intorno dunque alla sua sagoma, dai tratti appena abbozzati, tutto ondeggia mollemente come ad assecondare il movimento dell’anima, vulnerabile preda di un nemico sconosciuto.
Oltre il parapetto che attraversa obliquamente la tela, quasi a stabilire un argine alla debordante angoscia del protagonista, Munch scontorna anse sinuose che – come lui stesso racconta – disegnano “un orizzonte denso e bluastro”.
Acqua, terra, cielo paiono confondersi nei disarmonici cromatismi di una realtà estranea ed ostile che ci contagia fino a provocare una nausea latente e a trasfonderci un malessere esistenziale che nessuna energia interiore sarebbe in grado di sconfiggere.
Si scorgono, in secondo piano, le sembianze segaligne di due personaggi che, a detta dell’autore, “avevano assunto” – nello specifico della circostanza – “un pallore luminescente”.
In lontananza, presenze umane appena suggerite solcano le acque su fragili imbarcazioni; vortici e mulinelli paiono confondersi e mescolarsi a tracce indistinte di un agglomerato urbano.
Una cosa è certa: Munch ha saputo trasferire sull’intero paesaggio la percezione “del grande urlo” da lui “realmente udito”, un urlo che – scrive ancora sul suo diario – aveva mandato in pezzi le sue linee: “Le linee e i colori risuonavano vibrando – queste oscillazioni della vita non solo costringevano i miei occhi a oscillare, ma imprimevano altrettante oscillazioni alle orecchie – perché io realmente ho udito quell’urlo – e poi ho dipinto il quadro”.
Munch si propone dunque come la voce consapevole di un’umanità lacerata dall’incombente minaccia del nulla. Mentre tenta di sottrarsi alla violenza di un ignoto e spietato aggressore, considera tuttavia il suo un tentativo vano e senza prospettiva: aggrappato alla propria solitudine, lo sventurato ignora che proprio quell’isolamento si mostra come il supremo responsabile di un’angoscia che lo rende vittima e carnefice al tempo stesso.
Non riesce dunque Munch ad esplodere in un grido, perché il suo esistere sembra avere smarrito la possibilità di riconoscere ed affermare il significato stesso del vivere; mancano, alla sua abissale disperazione, dei testimoni veri, presenze silenziose ma reali che di quel grido si facciano interpreti e portavoce, che ne richiamino insomma la strutturale irriducibilità.
Sarebbe questa, forse, l’unica condizione per convertire l’urlo scomposto dell’artista in un grido di speranza, finalmente capace di veicolare quell’ultima originale domanda, documento e segno di una ritrovata volontà di bene, agìta non solo per sé, ma per il mondo intero.