La sconfitta del centrodestra alle elezioni comunali 2025 (che sarà confermata ai ballottaggi) sembra casuale, ma non è così. I sindaci non si improvvisano

La sconfitta alle elezioni comunali di Genova oltre a quella (prevista) a Ravenna e che probabilmente si confermerà anche a Taranto e Matera, non dovrebbe essere affrontata con la consueta sufficienza e superficialità dai vertici dei partiti di governo.

Serve poco catalogare la brutta figura nella rubrica “casi minori”, perché è invece la spia di un malessere molto più diffuso di quanto si possa pensare e che verrà alla luce in tutte le sue conseguenze già al prossimo e più importante turno amministrativo 2026. Nel frattempo, delle 10 maggiori città italiane solo Palermo e Catania sono amministrate dal centrodestra e solo 7 tra le prime 30.



Non si deve nascondere la verità: là dove il centrosinistra allargato – dal M5s ad Azione – si presenta compatto e con un candidato credibile, vince (e vincerà) quasi sempre.

A livello locale non funzionano le logiche politiche romane con la verve della Meloni che riesce a coprire dissensi ed insufficienze altrimenti ancor più evidenti: la verità è che l’intelaiatura dei partiti di governo da tempo non esiste più e mostra tutti i suoi limiti proprio quando si deve votare a livello locale, dove, per vincere, servono donne e uomini credibili, ma anche una struttura decentrata capace di presentare nelle liste e nei posti di responsabilità dei candidati di qualità.



Invece, nella realtà di base di quasi tutti i partiti italiani, è impressionante la povertà di valore dei dirigenti locali, e se a sinistra, soprattutto dove comanda il Pd, si riesce comunque a far emergere un maggior numero di persone credibili, ciò avviene soprattutto attingendo nel terzo settore, nel mondo del volontariato e delle associazioni, oltre che dalla rete di gestione del potere ben radicata in alcune regioni storicamente “rosse”.

Ciò non avviene a destra, anche perché per governare una città non serve avere solo un sindaco ma anche una sua squadra (a destra di solito assente), in grado di remare controcorrente, trovandosi davanti un apparato più o meno ostile e ben strutturato.



Tutto ciò è frutto di anni di trascuratezze, di mancanza di rinnovamento, ma anche della a volte insopportabile presunzione dei leader che la gente voti “comunque” e che quindi non vada interpellata sui candidati locali.

È per esempio una strada profondamente sbagliata pensare che le “primarie” non possano essere anche una vetrina per identificare e costruire candidature locali. E si insiste con scelte calate dall’alto, sostanzialmente infischiandosene della credibilità o meno dei candidati proposti.

Si assiste così a vertici che decidono d’imperio e con criteri di spartizione, nel consueto quanto sbagliato ragionamento che “tanto si vota il simbolo”, mentre a livello locale conta la credibilità di chi si presenta e con la gente che sempre di più preferisce candidati di buon senso e non politicamente schierati.

Se qualcuno avesse la bontà di approfondire i risultati amministrativi degli ultimi anni scoprirebbe che ci sono stati diversi casi in cui il centrodestra ha perso perfino più della metà dei suoi voti nella stessa giornata tra voto politico ed amministrativo, per esempio alle europee dell’anno scorso rispetto alle molte, contemporanee elezioni comunali.

E non parliamo dei ballottaggi amministrativi, dove l’affluenza cala vistosamente e quasi sempre a danno del centrodestra. Da anni chi scrive sostiene che se al ballottaggio un candidato prende meno voti assoluti di un altro al primo turno è quest’ultimo che semmai dovrebbe essere eletto.

Non potendo (o volendo) pensarci prima, si arriva poi regolarmente all’ultimo momento presentando a destra candidati perdenti, e il caso di Milano anche questa volta rischia di diventare l’esempio più clamoroso.

Non si vince senza selezionare per tempo delle candidature serie, magari sentendo anche il parere preventivo dei propri elettori, ma i mesi corrono e nessuno ci pensa, salvo parlare (male) del vicino, per arrivare poi a rispolverare all’ultimo minuto qualche illustre sconosciuto (qualcuno si ricorda il nome dell’ultimo candidato di centrodestra a sindaco di Milano?) o ricorrendo a qualche esponente politico di vertice ma che non ha avuto il tempo di radicarsi sul territorio.

Diventare sindaco presuppone un lungo, paziente, silenzioso lavoro di preparazione e di studio. Non bastano gli spot o la notorietà dell’ultimo minuto, né tantomeno “paracadutare” qualche nome conosciuto ma vergine di esperienza: un buon chirurgo o un cantante o un campione sportivo non diventano automaticamente un buon sindaco e la prova la si è vista proprio a Genova, dove la candidatura di Silvia Salis (nota ai genovesi, ma per altre questioni) è stata preparata con mesi di programmazione ed il risultato non è mancato, anche là dove pochi mesi prima il centrodestra aveva vinto alle regionali.

Purtroppo queste cose si scrivono da sempre, ma non vengono mai concretamente affrontate e meno ancora adesso, dove tutto sembra concentrarsi nella visibilità dei leader, a cominciare dalla Meloni.

Difficile pensare quindi che da Genova arrivi una “sveglia” a tutto il sistema, ma è comunque giusto suonarla lo stesso.

 — — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI