L’estate per molti significa l’opposto del cinema, ma non necessariamente di un film. E allora dedichiamo un po’ di spazio ad alcuni titoli inediti o poco visti che si possono tranquillamente vedere sulle piattaforme on line.
Che fine ha fatto il cinema medio, ovvero quello che cerca un pubblico e una modalità di realizzazione e produzione lontana tanto dai blockbuster quanto dagli indipendenti a basso costo, in cui la ricerca di un pubblico un po’ più consapevole potesse essere proficua? Schiacciato dalla moderna macchina produttiva, ha trovato posto spesso nella serialità televisiva, faticando a trovare spazio nella distribuzione cinematografica, a meno che non si tratti di autori affermati. Non è il caso di Brad Anderson e del suo Beirut, che dopo una distribuzione disastrosa nelle sale arriva in Italia grazie a Netflix.
Il film è una spy story in cui un diplomatico nella Beirut degli anni ’70 si vede la moglie uccisa dal fratello terrorista del ragazzino che avevano adottato; 10 anni dopo, tornato negli Usa e con una vita fin troppo tranquilla, l’uomo è costretto a far ritorno in Libano perché per negoziare il rilascio di un amico rapito, i rapitori hanno chiesto lui e lui soltanto.
Scritto da un esperto del genere come Tony Gilroy (Michael Clayton, Duplicity, la serie di Jason Bourne), Beirut è un dramma spionistico sulla scia di Argo, la cui sceneggiatura – in ballo dal 1991 – è stata messa in produzione solo dopo il successo del film di Ben Affleck. Ma rispetto a quello, Beirut è meno scanzonato e spettacolare, meno teso e più attento alla costruzione, soprattutto alla descrizione di un contesto storico, geografico e politico che, fatti i conti con la finzione e il romanzesco, funga da riflesso retroattivo dell’attualità.
Perché il Libano e la città di Beirut in particolare sono da molto tempo gli aghi della bilancia di tutte le politiche statunitensi ed europee riguardo i tumulti mediorientali e Anderson mostra la città prima e dopo la guerra civile, imbastendo un complicato intreccio i cui echi risuonano ancora oggi: tutto si tiene e ora come allora gli Usa sono tanto burattinai quanto burattini, alla mercé di ingranaggi e meccanismi che hanno creato e spesso controllato e il film usa la Storia e le sue crisi per tessere un racconto.
È in questo modo di raccontare che Beirut afferma il suo essere cinema medio in tutto e per tutto, nel bene e nel male: calibrato nei ritmi, con personaggi ben scolpiti che diventano la chiave della suspense, e poi quella piacevole aria di classico moderno, di Milius in minore con i temi della seconda chance, dell’uomo tra due fuochi, delle istituzioni infingarde e del rispetto tra guerrieri al di là della bandiera.
Di contro, in Beirut troviamo una certa piattezza stilistica ed estetica, la mancanza di azione e inventiva – che pur Anderson mostrò nei suoi film passati, come Session 9, L’uomo senza sonno e Vanishing on 7th Street -, una limitatezza di respiro potremmo dire. Con una formula: più Netflix, meno Le Carré. Eppure Anderson è un professionista abbastanza navigato da riuscire a rendere in modo adeguato una storia e una narrazione intriganti, tra le quali filtra il sentire contemporaneo. È ciò che un tempo si chiedeva a un film medio, prima che la categoria divenisse protetta.