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Home » Cinema e Tv » Film e Cinema » BLACK TEA/ Il film con una storia d’amore che supera i confini di etnia e cultura

  • Film e Cinema
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BLACK TEA/ Il film con una storia d’amore che supera i confini di etnia e cultura

Chiara Pajetta
Pubblicato 27 Maggio 2025 - Aggiornato alle ore 09:45
Una scena del film

Una scena del film

Con il film "Black Tea" Abderrahmane Sissako ci mostra come la ricerca della felicità possa superare ogni barriera

Se cerchiamo un film che ci sappia parlare dell’amore con verità e profondità, è ormai evidente che dobbiamo guardare lontano, magari in altri continenti, per esempio l’Africa e l’Asia. Perché sul tema del rapporto uomo-donna, chiave originaria della gioia per l’essere umano di ogni tempo, sembra che il gaudente ma inaridito e presuntuoso Occidente non sia più in grado di offrirci qualcosa di autentico e significativo.


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L’uscita un po’ in sordina nelle nostre sale di Black Tea, l’ultima suggestiva pellicola del bravo regista Abderrahmane Sissako, originario della Mauritania, ci conferma che a Sud e a Est del nostro mondo, precisamente in Costa d’Avorio e in Cina, si sa guardare all’amore con occhi sinceri e persino devoti.


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I due protagonisti, la bella ed elegante africana Aya e il distinto cinese Cai, un coltivatore e raffinato estimatore delle varie specie di tè, si incontrano a Chocolate City, quartiere con una forte presenza africana di Guangzhou (nome in mandarino di Canton). Sono certamente diversi per etnia, trascorsi familiari e cultura, ma ambedue sono alla ricerca della felicità, che troveranno in un lento percorso fatto di attese, sguardi, vicinanza rispettosa e capacità di perdono.

Provengono da storie dolorose e difficili. Anya ha avuto il coraggio di abbandonare, praticamente “sull’altare”, il fidanzato infedele, e pronuncia coraggiosamente un deciso “No” al sindaco, che la interroga sulla sua volontà di sposarsi. Cai, invece, vive separato dalla moglie, che ha tradito in passato, e lavora in un negozio insieme con il figlio ventenne, che vorrebbe un rapporto più aperto col padre a cui è profondamente affezionato.


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La scena iniziale è proprio quella dell’inaudito “No” pronunciato da Anya, vestita con un bellissimo abito bianco, che si rifiuta di vivere nella menzogna, dopo la scoperta della slealtà del compagno che aveva scelto. Lascia dunque la sua terra in Costa d’Avorio, e la ritroviamo ben inserita nel quartiere “nero” di Guangzhou, in Cina, dove cinesi e africani, dediti al commercio, vivono a stretto contatto.

Guangzhou è una megalopoli che si è sviluppata enormemente in seguito al miracolo economico cinese, attirando decine di migliaia di migranti africani, al punto che i cinesi chiamano quel quartiere, situato vicino ai mercati affollati che offrono le merci più varie, appunto Chocolate City.

Ma, come afferma il regista Sissako, “a prescindere da dove le persone provengano, esse hanno in comune il desiderio di vivere una vita felice… e Aya passa da una strada africana a una strada cinese senza soluzione di continuità”. Lei resta se stessa, con la sua aspirazione alla libertà e alla verità, che la rendono accogliente e capace di dialogare con tutti. È quindi aperta verso un mondo diverso dal suo, di cui acquisisce perfettamente la lingua, e “impara” i ricercati rituali della cerimonia del tè, così lenti, delicati, ripetitivi e simbolici, lontano certo dai ritmi più chiassosi del suo Paese d’origine.

Lavora in un raffinato negozio di tè, ma mantiene la sua eleganza esuberante dai colori vistosi, accompagnata da acconciature elaborate. È comunque capace di apprezzare la soffice bellezza e i profumi intensi delle piantagioni verdi del suo datore di lavoro, che le svela la poesia della conoscenza e della cura delle piantine di tè. Dal frastuono dei mercati si viene così introdotti nella natura sapientemente lavorata dall’uomo orientale, che la accudisce con profondo rispetto.

L’immigrazione in Cina, proveniente dall’Africa, ci viene raccontata perciò sconvolgendo i nostri schemi abituali: gli africani non sono miserabili, hanno un interesse economico dinamico e operoso, e nel film dimostrano anche di volersi dedicare all’altro, così diverso, alla sua identità, che trapela magari attraverso la misteriosa cerimonia del tè.

La stessa Cina, che certo è già massicciamente presente sul suolo d’Africa, pronta ad acquisirne le risorse e a esportare le sue merci, ha però da imparare da un popolo che ha un altro colore della pelle e una saggezza e industriosità che nascono da radici lontane. Li-Ben, il giovane figlio del protagonista, rifiuta perciò la chiusura della vecchia generazione cinese (quella dei suoi nonni) verso i nuovi arrivati, così intraprendenti e a tratti fuori dalle regole, e supera la paura dell’altro persino quando intuisce che il padre si sta innamorando di Aya.

Eppure sa che Ying, la madre separata, ha sofferto per il doppio tradimento del marito: con il lavoro frenetico e incessante, posto al di sopra di tutto, e addirittura con l’amore di una donna di Capo Verde, dove l’hanno portato le sue attività commerciali. Laggiù Cai ha persino avuto una figlia, Eva, che non ha mai incontrato da quando è tornato in patria. Ma questa travagliata vita familiare non preclude al figlio Li-Ben la possibilità di aprirsi al diverso.

Le ferite del passato segnano sia Aya che Cai, ma anche in Cina, la fabbrica del mondo che noi in realtà non conosciamo veramente, lo spirito e la curiosità dell’essere umano sono vivi. Traspaiono nei colori, nei sogni e nelle volute ambiguità di Black Tea, che colpisce l’anima, perché ci mostra la possibilità di incontro e di dialogo tra popoli e persone culturalmente lontani, ma insieme così simili nel cuore.

Il finale, volutamente enigmatico, ma di una potenza evocativa inaspettata, ci proietta in una possibilità di sacrificio imprevisto, frutto della capacità di perdono. Sono proprio le donne antagoniste, Ying, la moglie separata di Cai e Aya, cosciente di non essere ancora pienamente accettata dalla società cinese, ancora chiusa e sospettosa, a trovare una strada di pacificazione impensabile, legata proprio alla verità dell’amore, che tutto sa comprendere e ricucire, in qualunque cultura. Nel film si tratta di un sogno? O è la nuova realtà?

Non importa trovare una risposta, resta comunque il “Sì” finale di Aya al marito che prima aveva rifiutato, ora che indossa di nuovo l’abito bianco nel suo Paese. È come un invito coraggioso ad aprirsi alla possibilità che l’amore sia frutto anche della capacità di accogliere persino l’errore dell’altro, quello dello sposo che in passato la sposa non era riuscita ad accettare.

Forse la cerimonia del tè, in un continente lontano, doveva insegnare ad Aya quanto è delicato il rapporto d’amore, soprattutto quando si viene ingannati, come è accaduto a lei. Lo stesso insegnamento che la moglie di Cai, a sua volta tradita, ha appreso proprio dall’incontro con la donna africana, che ha avuto il coraggio di chiedere a Cai di ritrovare la figlia abbandonata, di cui Ying ha sempre conosciuto l’esistenza, senza tuttavia mai osare parlarne.

Così si dischiudono nuovi orizzonti per tutte e due le donne che, cresciute in società tanto diverse, sanno però aprirsi alla profondità dell’amore. Non solo quindi si superano barriere geografiche e culturali, ma si vincono pregiudizi radicati, aprendosi alla dimensione della vera accoglienza dell’altro, attraverso il coraggio del perdono.

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